Dopo il concerto-rissa al Piper
Il signorino non merita il rispetto che si deve a un vero rocker maledetto né la trepidazione che ciascuno prova di fronte a ogni anima inquieta. Non basta salire su un palco, farsi un paio di graffi e inscenare un'indegna gazzarra per considerarsi un artista, per quanto trasgressivo. Allo stesso modo, è bizzarro che la sua tormentata love-story con Kate Moss lo innalzi allo status di divo autolesionista. Se vuole sposarsi la modellona, auguri e figli maschi. Se vuole flirtare con la siringa, che abbia almeno la decenza di non credersi un eroe, a nessun livello. Nella storia ultracinquantennale del rock molti giganti sono caduti nel tritatutto della droga, dell'alcool, della depressione, ma ciò che resta di loro è il talento cristallino. Le morti di Elvis Presley, Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Kurt Cobain e di tanti altri nulla aggiungono alla loro grandezza: sono servite solo per impacchettare una mistica della fine prematura, un'idolatria della fragilità spirituale, un marketing dell'oltretomba. Doherty gioca con la propria incoscienza, e attira a sé un pubblico al quale poco interessa la qualità musicale, e molto la performance dell'annientamento dell'Io. Tra l'altro, non è neppure una strategia originale: venticinque anni fa Sid Vicious, il bassista dei Sex Pistols, mimava rivoltellate alla platea mentre eseguiva una versione allucinata della sinatriana «My Way». Un giorno uccise la sua fidanzata Nancy Spungen e poi finì stroncato da un'overdose. In tanto orrore, offrì però un contributo anche d'ingegno al «nichilismo rivoluzionario», effimero ma travolgente, del punk rock. Pete Doherty no. Nessuno ne ricorderà le oscure gesta coi Libertines o con i Babyshambles: canta e suona come potrebbe farlo un commercialista dopo una sbronza epocale. E gli va ancora bene: se a scatenare la rissa del Piper fosse stato un giovane qualunque a Campo de Fiori, avrebbe finito la notte al commissariato, non in una suite a cinque stelle. Ste. Man.