La lezione dei martiri d'Ungheria
Mezzo secolo fa, a pochi mesi dal «giovedì nero» del 28 giugno negli stabilimenti dell'industria metallurgica di Poznan intitolati a Stalin (ricordati da una bella iniziativa a Roma, «Rivolta operaia - Poznan 1956, un passo verso il crollo del comunismo reale», a cura dell'Ambasciata di Polonia, Anpi, Associazione italiana di studi sull'Europa centrale e orientale e Casa della memoria e della storia), arrivava lo scossone all'impero sovietico che lacerava l'assetto tracciato a Jalta e le coscienze dell'Europa. L'ex parlamento ungherese oggi sede dell'IIC diretto da Arnaldo Marianacci è stato il punto d'incontro della rete diplomatica tessuta da Italia, Australia, Canada, Francia, Olanda, Svezia, Usa, Danimarca, Regno Unito per ricordare gli insorti magiari con il convegno «Il 1956 e l'Ungheria nella memoria dei protagonisti. Alla ricerca della libertà e della democrazia» con la collaborazione del Centro internazionale per la transizione democratica, gli Uffici regionali dell'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati e il Comitato internazionale della Croce rossa, manifestazione aperta dal presidente della Repubblica d'Ungheria Laszlo Solyom. La mostra di oltre 350 fotografie e 50 libri, inaugurata dal presidente del parlamento ungherese Katalin Szili e visitata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e dal presidente della Camera Fausto Bertinotti, ha un fil rouge tutto italiano, con gli scatti realizzati da Mario De Biasi in buona parte pubblicati dalla rivista Epoca. De Biasi, a sette giorni dallo scoppio della rivolta, era riuscito avventurosamente a passare la frontiera austro-magiara presidiata dagli insorti. Il 23 ottobre 1956 quella che sembrava una normale manifestazione di solidarietà agli operai di Poznan e al presidente polacco Wladyslaw Gomulka, da parte di studenti dell'Università tecnica davanti alla statua del generale Josef Bem, diventa l'espressione della protesta contro la presenza dei sovietici e contro il sistema comunista che ha ingabbiato l'Ungheria. Da poche decine i manifestanti diventano migliaia e la reazione dei reparti della polizia che, su ordine del primo ministro Erno Gero, apre il fuoco contro quelli che definisce «canaglie», scatena la rabbia popolare. Gli insorti, che ricevono le armi dagli operai dalle fabbriche, rivogliono al suo posto Imre Nagy, premier nel 1953 sull'onda della destalinizzazione avviata dal XX Congresso del Pcus e poi espulso dal Partito comunista ungherese. Il primo ministro Gero pare cedere, richiama Nagy ma nel frattempo chiama anche i suoi referenti a Mosca affinché venga ristabilito lo status quo. Per le strade della capitale ci sono scontri a fuoco con unità sovietiche. La febbre della rivolta dilaga nel Paese e il 29 ottobre Budapest viene abbandonata dalle truppe d'occupazione. Sembra il punto di non ritorno e il trionfo della rivoluzione. Nagy intavola trattative col Cremlino sulle promesse di elezioni democratiche e l'uscita dell'Ungheria dal Patto di Varsavia, con dichiarazione di neutralità. L'Urss pare disposta a concessioni, ma è solo un modo di ingannare i rivoltosi e dar tempo all'Armata Rossa e agli eserciti delle nazioni del blocco sovietico di intervenire. Le truppe si stanno radunando ai confini e il 4 novembre i carri armati invadono l'Ungheria. Un disperato Nagy, dalla radio, informa l'Europa del tradimento e chiede un aiuto che da Occidente non arriva e non potrà mai arrivare. Dwight D. Eisenhower è impegnato nella campagna per la rielezione a presidente degli Stati Uniti d'America, Gamal Abdel Nasser in Medio Oriente ha premuto sull'acceleratore della nazionalizzazione della compagnia del canale di Suez innescando la crisi in quel settore nevralgico del mondo. Il 29 ottobre i mezzi corazzati israeliani dilagano