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Dopo la profanazione di Ceccherini all'Isola. Viaggio allucinante nel piccolo schermo

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Qualcuno che costruisca due o tre telecamere finte, di compensato. Una mano di vernice e via, le piazzi sull'isoletta honduregna, e sotto il tendone del circo, e nelle praterie dell'Arizona. Quei "morti di fama" non devono intuire la chiusura dei reality: per maggior pena, vanno lasciati dove sono, a riflettori spenti. Soli, abbandonati ad accapigliarsi per un pugno di riso, a mungere le vacche, a precipitare giù dal trapezio. Ma senza che gli spettatori siano costretti a offrire loro alcuna chance: tra qualche millennio, una civiltà superstite ne troverà le tracce fossili e argomenterà su questa specie catodica minore che ha infestato l'alba del Ventunesimo secolo. Analizzeranno uno slip pietrificato, frammenti di calendari osè, un paleotelefonino con su i numeri di Lele Mora e Bobo Vieri. Della televisione non si avrà alcun ricordo, se non qualche reperto metallico estratto dagli scavi di Cologno e Saxa Rubra. E sarà meglio così. Perché, stando così le cose, il piccolo schermo non ha alcun futuro. Non è solo questione di bestemmie o di qualità perduta: è che il mezzo è obsoleto, ormai svuotato di ogni funzione pedagogica, o anche didascalica. E il trasferimento sul satellite di questa o quella rete aderisce a un progetto politico, non culturale o sociale. L'intrattenimento e l'informazione partecipano di un balletto osceno dove non c'è più nulla da ascoltare, o da apprendere. Dove solo delle simpatiche canaglie rischiano gli scoop e la galera. Dove una troupe della Rai impiega due ore per collegarsi da Piazza Vittorio, mentre la profanazione di Ceccherini rimbalza all'istante, con tecnologica efficacia, dall'altra parte del mondo. La cura dimagrante prospettata da Gentiloni servirà, in concreto, a far perdere a Mediaset il doppio di quanto ci rimetterà Viale Mazzini, in termini di introiti pubblicitari. Ma non cambierà lo stato dell'arte: con la televisione ostaggio degli spot. Personali o industriali. L'atto di contrizione di Simona Ventura dopo la sortita del comico toscano (che, per soprammercato, si è congedato annunciando onanismi vari grazie ai poster della soubrettina) non è tanto un segno di rispetto della Fede, ma di dolore per i punti di share che andranno perduti. Allo stesso modo, è propaganda privata la zuffa a puntate tra Vittorio Sgarbi e Alessandra Mussolini. Quel litigio, taroccato e men che politico, vale più di un comizio per chi non trova più udienza in Parlamento e si rifugia nel corner del varietà trash. Si dice: conviene a quasi tutti. Agli antagonisti e agli inserzionisti. Catturi l'ascolto del popolo voyeur riproponendo all'infinito il bisticcio, o lo scandalo, o il fattaccio. Nel contesto, la Gregoraci incarna il perfetto "sottoprodotto" trasversale, tra avanspettacolo e reclame. Diventa protagonista delle cronache giudiziarie, la cacciano dal servizio pubblico, e lei puntualmente trova ospitalità dai privati. Non più costretta alla svendita, lucra più di trecentomila euro grazie a "Buona domenica" e alla promozione di un videotelefono: e allusivamente ripete «alla fine ho ceduto». Stupisce che, a fargli da spalla, compaia un videosauro di antica saggezza come Pippo Baudo. Quello stesso che, con sagacia e mestiere, cerca di abbassare i toni nel duello festivo tra i network. Nelle ore postprandiali, alle famiglie provate da abbacchio e da ciambellone, padri e nonni con le palpebre a saracinesca e bambini con gli occhi sgranati, Mediaset tira colpi bassissimi. Vedi Paola Perego che tratta Lorena Bobbitt - l'eviratrice - come se fosse una star, o una Giovanna d'Arco del Duemila. O Lory Del Santo che accetta di piangere in scena ricordando il suo piccolo Conor volato giù dal grattacielo. Dall'altra parte Baudo mulina le braccia, ma impone una confezione soft: mentre la conduttrice ufficiale di "Domenica In", la pur brava signorina Bianchetti, effonde attorno a sè un ecclesiale profumo di gigli. E la Rai, pur smentendo, pensa di rimpiazzarla con la Parietti, matura panterona fr

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