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Grande tecnica ed emozioni sommesse per l'opera di debutto di Angelini

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UN'OPERA prima italiana. Firmata da un giovane. Alessandro Angelini, che nonostante abbia realizzato finora solo alcuni documentari, dimostra di saper felicemente dominare il mezzo cinema, sia come tecniche sia come espressioni narrative. Sostenute da un'idea di base per nulla consueta, in equilibrio giusto fra il dramma, sempre controllato, e l'emozione asciutta e quasi sommessa. L'idea prende lo spunto da un giovanotto che, pur avendo molte e più lucrose possibilità di lavoro, fa l'educatore in una prigione, per poter dopo più agevolmente inserire i detenuti in quella società da cui sono stati separati. Suo padre non l'ha quasi conosciuto perché, dopo un omicidio, è in carcere da oltre vent'anni. Destinato a rimanervi altri dieci. Invece un giorno, senza che l'altro sappia di lui, se lo ritrova davanti, quasi anonimo, proprio fra quei detenuti di cui si sta prendendo cura. Naturalmente non gli si svela ma si adopra per venire incontro alle sue necessità, esasperate da un carattere indomito, aggressivo, violentissimo. A un certo momento, però, la rivelazione quasi esplode, portando alla luce il duro risentimento del detenuto nei confronti dei suoi (una moglie e un fratello) che, dopo la sua condanna, si erano affrettati ad abbandonarlo, e, in parallelo, il dubbio, il tormento e quasi il rimorso di quel figlio che, pur immediatamente osteggiato dai familiari, vorrebbe in qualche modo rimediare alla situazione. Ma non potrà non finir male... Un confronto psicologico meditato e preciso. Con l'abilità, al momento della rivelazione di quel rapporto alla base, di evitare la commozione facile, privilegiando, al suo posto, una secchezza di modi e di accenti che è poi quella da cui tutto si lascia guidare. Con la possibilità di disegnare, anzi di scolpire, il contrasto spesso molto forte fra quei due caratteri, pur con quel legame familiare sempre ben presente, e con l'abilità di affidare ogni risvolto della vicenda, rinchiusa spesso in modo claustrofobico fra le pareti del carcere, a climi tesi e angoscianti, in grado di non concedere mai nulla al patetico o alla retorica, ma sempre indirizzati al contrario, a un risentito realismo di cronaca che, sugli atti e sui fatti, fa prevalere le psicologie, i loro turbamenti, i loro strappi. In atmosfere in cui la bella fotografia piena d'ombre di Arnaldo Cantinari diventa lo specchio, intimo e non di rado segreto, di quello scontro fra due personalità quasi opposte. Lo ricreano, con tocchi magistrali, Giorgio Pasotti, nelle lacerazioni e nelle speranze vane del figlio, e Giorgio Colangeli, nelle disperate asprezze del padre. Uno scontro che sa vibrare nel profondo.

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