Visto dal critico

SONO quasi certo che se, qui da noi, si dovesse chiedere in giro di Alatriste la risposta, in genere, sarebbe «Chi era costui?». Invece in Spagna il nome è così famoso che i ragazzi ce l'hanno scritto sulle magliette e che, a scuola, è argomento di temi in classe e perfino di dibattito. Però non è mai esistito perché è un personaggio al centro di ben cinque romanzi scritti negli ultimi dieci anni da un ex giornalista, Artuto Pérez-Reverte che lo ha inventato rifacendosi a certe cronache del Seicento in Spagna quando regnava Filippo IV, ma governava il terribile conte duca Olivares avendo al loro soldo un truce soldataccio di ventura, appunto Alatriste, pronto a servire in armi il suo Paese nella guerra in Fiandra ma anche capace di uccidere in veste privata solo per denaro, come uno dei tanti sicari che, all'epoca, pullulavano ovunque (in attesa dei bounty-Killers delle cronache americane, e cinematografiche di oggi). Alatriste, perciò, proposto come se uscisse da uno dei tanti romanzi storici di Dumas padre e raccontato scegliendo a piene mani, dei cinque romanzi di Pérez-Reverte, alcune delle sue gesta ritenute più adatte a finire su uno schermo, non ultime quelle comprese nel quinto romanzo a lui dedicato, «L'oro del re», uscito di recente anche in Italia tradotto da Roberta Bovaia. Si comincia proprio nelle Fiandre; tetre e piovose. Alatriste guida i suoi uomini con coraggio ma, a un certo momento, patisce perdite tali da vedersi morire vicino anche il suo più caro amico da cui, quasi in eredità, riceverà l'incarico di prendersi cura di un figlio in quel momento ancora bambino. Si va avanti così, con altri episodi, con quel bambino che, cresciuto, si innamora di una donna legata a una famiglia avversa ad Alatriste, con nuove missioni affidate da Olivares al protagonista sempre tra le piogge e gli agguati delle Fiandre, mettendo di più l'accento sugli atti eroici che non su quelli disdicevoli, nonostante, proprio in questi giorni, Pérez-Reverte, parlando del personaggio da lui inventato lo abbia definito, con un termine ora alla moda, un "eroe politicamente scorretto". Si è incaricato di rappresentarci queste avventure un regista spagnolo, Agustin Díaz Yanes di cui, qui in Italia, si è visto nel 2001 un film abbastanza modesto, «Nessuna notizia di Dio», con al centro però Penélope Cruz e Victoria Abril. Lì non c'era il costume, qui c'è con citazioni perfino della pittura di Velásquez, nelle cifre quasi sempre dei cappa e spada. Così fa spettacolo, anche per una episodica non certo avara di suggestioni. Il sicario buono (o quasi) è Viggo Mortensen, con tutta la grinta che serviva.