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Gillo Pontecorvo Nella leggenda con cinque film

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Il regista scomparso era diventato strenuo difensore del cinema d'autore. Lunedì i funerali privati

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E nell'arco di anni difficili che vanno dalla fine dei Ciquanta alla fine dei Settanta. Dopo un episodio in un film del '56, «La rosa dei venti» l'ho subito salutato con simpatia, ma anche con ammirazione, nel primo film tutto suo, «la grande strada azzurra», del 1957. Tratto dal romanzo «Squarciò» di Franco Solinas, che lo avrebbe sceneggiato con lui dando inizio a un lungo, fecondo sodalizio, si ambientava con rigore nell'ambiente dei pescatori di frodo riuscendo a far diventare autentici, in quelle vesti, persino attori dalla professione da tempo affermata, come Alida Valli e Ives Montand. Un'autenticità eguale, e più risentita, in «Kapò» in cui a una grande interprete come Susan Strasberg, non aveva esitato ad affidare il personaggio di una giovane ebrea, rinchiusa in un campo di concentramento nazista, che, nella speranza di sopravvivere, passava, con il mestiere di aguzzina e di guardiana, dalla parte dei carnefici, pur non tardando ad inserirsi, per amore di un deportato, fra i ranghi delle vittime. Con accenti forti e con tensioni laceranti. Presenti, con la forza e la vitalità dell'arte vera, nel film seguente, il suo più celebrato e premiato, «La battaglia di Algeri», scritto anche quello con Franco Solinas e costruito dall'inizio alla fine sul famoso scontro dai parà francesi, agli ordini del colonnello Mathieu, e i patrioti algerini del fronte di liberazione attestati nella Casbah. Una pagina di guerra guerreggiata risolta però con un linguaggio che, ad ogni immagine, si faceva stile: chiedendo alla realtà e alla sua documentazione «come dal vero», anche nei colori, di proporsi in tutta la sua interezza. In giusto equilibrio, sempre fra le psicologie e l'azione drammatica. Echi simili, ma intenzionalmente in chiave ottocentesca, in «Queimada», 1969, protagonista Marlon Brando, una pagina arroventata sul colonialismo nelle Antille: con l'idea, per dichiarazione stessa dell'autore, «di sposare un film d'avventure a un film psicologico», con i toni, la recitazione e le musiche guidate dai principi del romanzo fine Ottocento, tanto che — anche questo dichiarato da Pontecorvo — anche il colore, un po' smorzato, avrebbe dovuto assumere «una patina tutta particolare». Dieci anni dopo, ecco Pontecorvo di nuovo alla Mostra di Venezia con «Ogro» sul famoso attentato della resistenza basca a Carrero Blanco negli anni in cui Franco e la sua dittatura cominciavano a declinare. Un tema difficile: il terrorismo in Spagna, mentre il terrorismo degli anni di piombo imperversava in Italia. Risolto, però, con il necessario equilibrio, se non ideologico, certo dal punto di vista del cinema e dei suoi modi di proporsi ancora una volta con stile. La firma di un autore che ha mostrato di saper servire le proprie idee servendo anche, con qualità solidissime, quell'arte del film cui aveva dedicato tutte le sue ricerche. Delle ricerche non abbandonate nemmeno quando, senza più realizzare film, il cinema continuò a richiedere, ad altro titolo, la sua presenza e la sua partecipazione attiva. Come in quegli anni, fra il '92 e il '96, in cui venne chiamato a dirigere la Mostra di Venezia. Nello stesso periodo io presiedevo la Biennale, dopo esser stato, a mia volta, direttore della Mostra, e ho potuto così seguire da vicino non solo il suo impegno — come sempre generoso e intelligente — ma quella sua difesa convinta del cinema d'autore di cui io avevo fatto la mia bandiera e che gliela vidi a tal segno fare propria da ripetere, in una delle sue prime conferenze stampa, uno dei miei slogan preferiti negli Ottanta: «Sul Palazzo del Cinema, nonostante le apparenze, non ci sono le bandiere delle Nazioni. Ci sono quelle, più autentiche, degli autori».

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