di FULVIO STINCHELLI NEI giorni scorsi, celebrandosi la morte di Oriana Fallaci, la stampa italiana ...
Tra questi mi ha toccato in modo particolare l'intervista che Anna Magnani (una Magnani già aureolata dall'Oscar) concesse a un'Oriana ancor giovane, ma non per questo meno decisa e grintosa. Due tigri a confronto: si guatarono, si annusarono e, alla fine, rinunciarono a sbranarsi sol perché - è risaputo - tigre non mangia tigre. In compenso, per la delizia dei lettori, ne venne fuori una scintillante schermaglia ad altissimo livello. Alle corte, il più veridico ritratto della somma attrice che ancora oggi - a trentatré anni dalla sua dipartita - non beneficia di una biografia degna del suo inarrivabile talento. Personalmente, di quell'intervista mi colpirono le ultime frasi (che qui ricostruisco a memoria): Magnani: «Adesso che ho risposto a tante sue domande, mi permetta di fargliene una io... Che idea si è fatta di me, signora Fallaci?». Fallaci: «Be', be', sinceramente... lei è davvero un grand'uomo». Queste parole mi hanno riportato di colpo all'ultima volta che, pronubo il comune amico Fabrizio Sarazani, ebbi modo d'incontrare Anna Magnani. Fu nella sua teatralissima casa di Palazzo Altieri, era il 1971, o giù di lì. La signora Magnani appariva stanca, profondamente amareggiata. Parlò della Parte che Federico Fellini le aveva proposto nel film «Roma», con scarso entusiasmo. Ricordo, credo abbastanza esattamente, la conversazione e, specialmente, le sue parole: «Si sa com'è Federico, ti manda il copione perché si usa così... Il film, quello vero, ce l'ha, forse, in testa solo lui... Poi, verrà pure un capolavoro, ma al momento è volo cieco». E giù, una risataccia delle sue. «Ma, suvvìa, Anna - le fa Sarazani, che per lei era come un fratello - Fellini, quando pensa a Roma, pensa a Sordi, a Fabrizi, pensa a te, soprattutto a te, via, non scherziamo...». La grande Anna non gli fa finire il concetto: «E mo' te lo dico alla romana: Federico, nei suoi film, nun vede che se stesso e basta... E annamo, su, figurete se ciò vojja de ruzzà». Verissimo, non era in vena di celie, con la morte che sentiva già vicina. Continuò allora a insistere, con accanimento, sulle delusioni procuràtele dagli ultimi suoi film americani, dopo il trionfo nella «Rosa tatuata». «Come dite, voi che parlate pulito? Una rondine non fa primavera. Ora, la mia primavera è passata da un pezzo... La verità, volete sapere qual è? Che io sono un'incompiuta. Sì, bontà vostra, sarò pure una grande attrice, ma incompiuta!». Ci mise, con la voce, il punto esclamativo che le piaceva tanto, per poi proseguire: «Avevo un sogno, fare un film tutto mio, compresa la regìa. Sì, insomma, come Charlot. Ma Charlot, beato lui, è un uomo». Fece una risata che pareva un singhiozzo, per dire infine, con una sgrullata di spalle: «S'è fatto tardi. Annàtevene, che ciò sonno». Questo episodio (non ebbe séguiti, perché di lì a pochi mesi la Magnani morì), le cose che vi si dissero, mi tornano ora alla mente leggendo le belle pubblicazioni prodotte dalle Edizioni Interculturali a corredo della mostra in Campidoglio intitolata «Ciao, Anna». Accanto alla raccolta precisa, puntigliosa, ma anche appassionata (con la consultazione di 180 università, 315 biblioteche, 80 fondazioni e raccolte private) di Cristina e Luigi Vaccarella, delle lettere che Anna Magnani scrisse ai suoi amici americani, da Hal Wallis (produttore della «Rosa tatuata») a Tennessee Williams, da Bette Davis a George Cukor, da Martin Jurow a Cheryl Crawford, figura uno splendido saggio di Matilde Hochkofler. «Forse, se le fosse capitata l'occasione di passare dietro la macchina da presa - annota la Hochkofler - avrebbe avuto modo di usare al meglio l'aspetto volitivo, forte, organizzato del suo carattere, quel lato maschile che le ha invece creato non pochi scontri con registi decisi a usarla solo nei termini di un femminile viscerale, generoso ma tendenzialmente privo di raziocinio». È un rilievo critico che trova precisa verifica nelle cento e cento "lettere americane" (le ultime nel commovente inglese dettato d