L'autore prende di mira con feroce eleganza chi lo attacca per aver detto la verità sulla Resistenza

E risponde colpo su colpo ai Guardiani del Faro Resistenziale. Quelli che già erano rimasti perplessi di fronte a romanzi come «I nostri giorni proibiti» e «Il bambino che guardava le donne» (storie in cui gli «altri», e cioè i fascisti, non sono mostri, ma hanno dei sentimenti e dei valori) e a un saggio come «Le notti dei fuochi» (la nascita del Fascismo in Lomellina, vista dalle due parti in lotta). E che poi avevano storto il naso quando Pansa aveva deciso di scrivere la storia di un giovane repubblichino, sforzandosi di capire, attraverso lui, il perché di una scelta di tanti «ragazzi di Salò». E che infine di fronte a opere come «Il sangue dei vinti» e «Sconosciuto 1945» (documentate ricostruzioni, anche attraverso il racconto di figli, nipoti e altri testimoni, dei crimini compiuti dai partigiani comunisti dopo il 25 aprile a danno di fascisti, presunti tali o addirittura non fascisti), avevano dato la stura alla loro indignazione. Accusando lo scrittore di lesa maestà antifascista, per aver gettato fango sulla sacra immagine della Resistenza. Nonché di essersi venduto a Berlusconi e ai suoi «camerati». Figuriamoci. Antifascista democratico, Pansa, come storico, esordisce con una serie di studi sulla lotta partigiana in Piemonte; come giornalista, è una delle penne più frizzanti della sinistra, polemista nato, uno che a Berlusconi ha fatto barba e capelli (compresi quelli trapiantati). Tutto questo, però, non blocca la curiosità intellettuale, la voglia di ricostruire i fatti. Il che significa non accettare le verità prefabbricate dal Grande Fratello e rifiutare una storia «ideologica»: e cioè quella in cui le pagine oscure e scomode vengono omesse, manipolate, distorte, in nome della Vulgata Costituita. Irriverente nei confronti di entrambi, il giovane settantenne Pansa, in realtà, rende coerente omaggio ai suoi esordi di ragazzo alle prese con una tesi sulla Resistenza: infatti continua a lavorare su «quegli anni». Li ricostruisce, non ignorando le testimonianze dei vinti. È tanto difficile capire che la «lezione» dell'antifascismo va a farsi benedire se essa non è sostanziata dalla libertà e dalla tolleranza? Se l'antifascismo è dogmatico, quali armi ha per processare il dogmatismo fascista? Se si vogliono contrabbandare come Storia le storielle edificanti con i buoni da una parte e i cattivi dall'altra, non è che, insieme ai morti sconosciuti e alle verità occultate, si sotterri anche lo spirito critico? Pansa si è posto queste domande e i suoi libri sono le risposte. Le risposte di un distinto signore che, fosse vissuto negli anni ruggenti della RSI e della Resistenza, sarebbe stato un partigiano: ma che a scrivere una storia «partigiana» proprio non ci sta. Così, nella «Grande bugìa», ficca più che mai il dito nella piaga, raccontando altre storie di morti ammazzati dai resistenti rossi dopo il 25 aprile. E poi denuncia un bel po' di leggende che continuano a girare in merito alla lotta partigiana e dintorni. Pane al pane e vino al vino, signori, con qualche esempio: i comunisti volevano sì buttar fuori i nazifascisti, ma molti di loro avevano in testa non la democrazia liberale, ma quella popolare subalterna al totalitarismo sovietico; non è vero che la maggioranza degli Italiani fosse antifascista, anzi; non è vero che la Resistenza è stata una lotta di popolo. Insomma, i «numeri» sono stati gonfiati. Ma le pagine più gustose del libro sono quelle in cui l'autore polemizza con elegante ferocia contro i suoi detrattori - Aldo Aniasi, Giorgio Bocca, Sandro Curzi, Giovanni De Luna, Gianni Vattimo, Sergio Luzzatto,Furio Colombo - inchiodandoli al loro livore fazioso. E mostrando come tanti Linciatori non se la siano presa solo con lui: ne sanno qualcosa lo storico antifascista Roberto Vivarelli che nel libro «La fine di una stagione» osò raccontare, spiegando serenamente le motivazioni della scelta, la sua esperienza di quattordicenne a Salò;