Il «mistero» di una civiltà tutt'altro che enigmatica fu creato proprio dagli eredi di Romolo e Remo
Quando il professore-cicerone spiegò alla classe che si trattava di una statua fittile, ovvero in terracotta, ci meravigliammo un po' tutti: «Perché non farla in marmo? Sarebbe durata di più...». L'insegnante aggiunse allora che il coroplasta, tale Vulca, per colorare il suo capolavoro aveva usato una tecnica particolare che imponeva come materiale l'argilla. Da lì incominciai a capire che i "tirreni" erano un popolo complicato, diciamo, un tantino curioso. E subodorai che i romani, gente pratica, ce li avessero sullo stomaco anche per questo. Comunque, ebbi modo di approfondire la conoscenza nel corso della mia prima villeggiatura in Etruria, in casa di Ludovico, figlio di un grosso proprietario terriero della zona di Vetralla. Erano tempi di guerra, tempi avari. In ogni senso: si prendeva quel che si trovava. Specialmente quello che veniva con amichevole generosità offerto, come l'ospitalità estiva nella grande villa viterbese, dove si dormiva e soprattutto si mangiava, da papi. Ludovico era un buon ragazzo, taciturno, con due fissazioni: la caccia e le auto. Non aveva ancora l'età, né per l'una né per l'altra, ma se ne fregava altamente (era o non era il "signorino" del posto?), circolando per il feudo a rotta di collo sulla Balilla decapotabile, col lucente Beretta calibro 12 a fianco. In particolare, Lu', coltivava il rito della "caccia di notte" per i prati, le forre e le macchie di Norchia, la sacra zona archeologica. Diceva di andare a tassi e istrici, ma in realtà cullava sogni di tombarolo. Mi raccontava di favolosi rinvenimenti nelle tombe etrusche: bracciali d'oro, diademi tempestati di pietre preziose... «Tutte fregnacce - tagliava corto zi' Menico, tombarolo sul serio - si può rimediare al massimo qualche coccetto da vendere ai frati». Ma noi, alle "fregnacce", amavamo credere e partivamo regolarmente a caccia di notte con in mente il miraggio dei monili etruschi. Dopo ore di marcia nel buio, al rischio costante di romperci le ossa nei dirupi, puntualmente ci si ritrovava all'alba, col carniere vuoto e una gran fame, nel fumo d'una capanna di pastori. Questi, dato che pascolavano sulle terre del "signorino Lu'", ci accoglievano bene, offrendoci ricotta appena cagliata e "acqua cotta", etrusca anche questa. Come dolce, alla fine, quei silenti pecorai ci porgevano, in scontrosa visione, le fedeli compagne dei loro amori solitari: le foto "osées" delle modelle anni Venti, bianche come il latte e coi capelli "à la garçonne". Sul volto di quelle leggere fanciulle, a me pareva di rivedere il sorriso intrigante dell'Apollo di Villa Giulia. Fu quella la mia prima Etruria. Che, di colpo, m'è tornata in mente, giorni addietro, ascoltando in tivù l'annuncio, da parte di un ignaro mezzobusto, del rinvenimento nell'Orvietano dei resti del Fanum Voltumnae. Sensazionale notizia per chi se ne intende. Il Fanum Volutmnae era in effetti il cuore politico-religioso dell'Etruria, che non fu mai uno stato unitario centralizzato, ma piuttosto una confederazione di città-stato, facile preda nei secoli dei conquistatori romani che applicavano, spietatamente, il "divide et impera": ora con Cerveteri contro Tarquinia, ora alleati di Arezzo contro Veio, Alla fine, dopo alcuni secoli di zuffe, nell'88 a.C., tutta l'Etruria, dalla Campania a Marzabotto, veniva annessa e pacificata sotto l'imperioso tallone romano. Ma per secoli il Fanum Voltumnae (da Voltumna, che era un po' il Giove etrusco), nel territorio di Volsinii/Orvieto, aveva visto radunarsi, una volta l'anno, i lucumoni, i sovrani, delle dodici città-stato tirreniche per eleggere il capo dei capi, quello che i romani ribattezzarono «Praetor Etruriae». Insomma, per secoli e secoli, il Fanum orvietano aveva rappresentato il santuario in cui annualmente veniva a celebrarsi l'unico rito unitario civile e religioso della divisissima Etruria. Da ultimo, ora, stando ai media e alle notizie degli archeologi, sarebbero stati ritrovati i