Allevi e la musica nata in ambulanza
Dev'essere per l'emozione di questa investitura, e forse anche per la fatica della lunga tournée cinese, che Giovanni Allevi s'è accasciato su un marciapiedi di Milano, guadagnandosi così un passaggio in ambulanza. Dentro la quale, cogitando sull'assoluta precarietà dell'esistenza, il trentasettenne pianista ascolano ha partorito «Panic», la canzone che apre «Joy», il suo nuovo album, in uscita il prossimo 29 settembre, da lui stesso definito «emotivo, fresco ed attuale». 12 composizioni inedite che il pubblico romano potrà apprezzare dal vivo il 22 ottobre all'Auditorium. Giovanni Allevi è stato il classico enfant prodige partorito da una famiglia con la predisposizione genetica per il pentagramma, laureato in filosofia con una tesi su «Il vuoto nella fisica contemporanea», miglior pianista del 2006 al «Premio Carosone». L'aneddoto? All'esame di ammissione al conservatorio di Fermo, Allevi ha eseguito una fuga in stile contrappuntistico, ed un commissario ha commentato: «Questo qui o ha copiato, o è la reincarnazione di Brahms». O del Keith Jarrett dei tempi migliori, diciamo noi. «Per me è un grande complimento - risponde Allevi dall'altra parte della cornetta - ma devo precisare che Jarrett io l'ho sentito per la prima volta a 28 anni, quando il mio percorso formativo era già compiuto, altrimenti sarei stato talmente sedotto dalla forza della sua musica, che oggi sarei l'ennesimo clone». Hai partorito un album in un'ambulanza? «Sì, perchè nei momenti di grande emotività in me prende il sopravvento l'aspetto irrazionale, ed esce fuori la musica che ho dentro. L'attività musicale mi crea una grande ansia, che io riesco a stemperare attraverso la ritualità». Parliamo del vuoto nell'etica contemporanea, piuttosto che nella fisica. La filosofia ti ha condizionato parecchio? «Sì. La filosofia è la consapevolezza delle cose e del loro mistero e mi ha dato il senso della freschezza dell'attualità. È inutile cercare di dare una spiegazione a cose che non ce l'hanno. Questo relativizza il mio rapporto con l'accademia, il grande peso del confronto con il passato». In alcuni brani di «Joy» si sente la mancanza delle parole. «Suonando molto all'estero ho realizzato che la musica, senza le parole, ha la capacità di raggiungere immediatamente il cuore delle persone appartenenti a culture diverse. L'ascoltatore è il responsabile dell'opera d'arte, lui completa il quadro appena accennato dalle mie note». Qual è la tua downtown? «Io ho amato alla follia New York, ma ho scoperto che in ogni città ci sono dei luoghi non luoghi dove c'è un' umanità diversa che tutti i giorni affronta l'eroica soluzione dei problemi concreti, inseguendo il sogno della propria vita. Io come loro mi sento un precario dell'esistenza, "gettato nell"esistenza", come dice Haidegger, e allora ho voluto fotografare questa umanità e farle una carezza musicale, perché rappresenta il cuore pulsante delle città». «Joy» va in una direzione ben precisa? «No, perché io di fronte alla musica non ho scelta. Michelangelo diceva che "la statua è dentro il blocco di marmo, io devo solo togliere quello che c'è intorno." La direzione non la do io, mi si forma sotto le dita».