Guantanamo, l'inferno di Winterbottom
MICHAEL Winterbottom, uno dei registi inglesi più seri, continua a parlarci di afghani e pakistani. Come il recente «Cose di questo mondo», premiato con l'Orso d'oro a un festival di Berlino. Se quel film, però, metteva a fuoco l'itinerario impervio di due giovani afghani, emigrati in Inghilterra alla ricerca di una vita migliore, nel film di oggi, anche questo vincitore di un premio al Festival di Berlino di quest'anno, ci propone un cammino inverso. Quello di alcuni giovani pakistani, naturalizzati inglesi, che decidono di tornare in Pakistan perché uno di loro deve prendere in moglie una ragazza del Punjab. Durante il viaggio, però, sentono il bisogno di fare una deviazione in Afghanistan per venire incontro alle necessità di quella popolazione nell'imminenza della guerra. I Talebani, in quel momento ancora al potere, li trattano subito da nemici ed anche gli americani, appena arrivati, non li trattano meglio nonostante i loro passaporti inglesi. Anzi, trovandoli lì, nel clima infuocato del dopo 11 settembre, non tardano a considerarli dei terroristi e li spediscono nelle terribili prigioni di Guantanamo dove, dopo interrogatori, torture e vessazioni addirittura atroci, ci metteranno alcuni anni per essere riconosciuti innocenti e rispediti, liberi, in Inghilterra. Winterbottom, con la collaborazione di un altro regista, Mat Whitecross, ha rappresentato questa torba e cupa vicenda sulla base di tre piani narrativi: uno, molto materiale di repertorio, l'altro, dei racconti in prima persona dei pakistani che vi sono stati coinvolti (interpretati, a differenza delle scelte effettuate in «Cose di questo mondo», da attori professionisti), il terzo, infine, la ricostruzione, come dal vero, dei fatti che via via vengono narrati. Con uno stile sempre in sicuro equilibrio fra il documento e la finzione, tenendo egualmente in primo piano sia le pagine fatte scaturire dalle cronache, con oggettività, mostrando senza dimostrare (secondo la celebre formula rosselliniana), sia le pagine che seguono le disavventure tremende in cui finiscono coinvolti i protagonisti prima in Afghanistan, dove vengono sospettati e arrestati, poi, più a lungo, nei campi di concentramento di Guantanamo dove, camici arancioni e rapati a zero, tentano fra sevizie d'ogni sorta di dimostrare di non aver nulla a che fare con le manovre bieche di Bin Laden. Un film spesso insostenibile. Che però documenta, con la forza del cinema, quello che da tempo si legge sui giornali. Sperando che non duri.