L'eredità romana delle grandi casate
Già sento le proteste: «E i Sarazani, i Ceccarius, i Negro, gli attuali Rendina e Paradisi dove li metti?». Con tutto l'affetto possibile, al loro posto, che non è male. Ciò detto e fatto, veniamo ai grandi forestieri, quelli che seppero raccontare Roma come a Roma spettava (e spetta) di essere raccontata: nel bene come nel male, nell'orrore e nell'incanto. E qui penso ai Gregorovius, ai Burcardo. Penso soprattutto a Goethe, a Stendhal e a Gogol. Stendhal narrò di Roma (lui, in realtà, prediligeva Milano) per ragioni molto concrete, prosaiche. Si trovava benone in Italia e non aveva alcuna voglia di tornare in Francia, ma i soldi, e la pazienza, del giornale erano esauriti. Allora che escogita l'immaginoso Henri Beyle da Grenoble? Per assicurarsi generose committenze atte a prolungargli il soggiorno, inventa d'essere impegnato in ponderose ricerche negli archivi delle «grandes familles» romane, per ricavarne storie inedite di affascinante lettura. Cosa che fa, puntualmente e onestamente. Nasce in questo modo quell'inarrivabile affresco che risponde al titolo di «Chroniques italiennes», facendo riemergere da mediocrissimo oblio gigantesche «eroine» quali Beatrice Cenci e Vittoria Accoramboni. È una Roma al femminile, d'accordo, quella di Stendhal, ma che Roma! A completare la sua immagine, passando dagli uomini (pardon, dalle donne) alle pietre, realizzò poi le «Promenades dans Rome», una «guida» davvero impareggiabile. Dal canto suo, Nikolaj Vasil'evic Gogol arrivò in Italia, e a Roma, perché al suo tempo (i primissimi decenni dell'Ottocento), un grande scrittore proprio non poteva esimersi. Non ci restò a lungo, non fece in tempo ad apprendere il dolce idioma, ma talune fondamentali idee le maturò. Tra cui la scoperta di Giuseppe Gioachino Belli, come «unico vero poeta» di quegli anni vivente in Italia. Lo confidò a una sua colta corrispondente austriaca, aggiungendo, dal suo angoletto domestico in via della Croce, che vedeva Roma come una «città indescrivibile». Modesto davvero l'autore delle «Anime morte», considerato che nel contempo tracciava, a imperitura memoria, un folgorante ritratto della Roma post-napoleonica. Come dire che per raccontare Roma nella giusta maniera non è necessario conoscere l'italiano, basta aver recepito l'universalità del romanesco. E chiamarsi Gogol, ovviamente. Passano gli anni, i secoli, ma la musica non cambia. Ho appena finito di leggere, e di gustare, un agile libretto, ben stampato dallo storico editore Vallardi. S'intitola «Guida completa alle Grandi Famiglie di Roma» ed è opera dello storico canadese Anthony Majanlahti, conoscitore profondo della comunità inglese a Roma nel Rinascimento, e attualmente «fellow» della romana British School. Il «caso è Dio», assicurava Victor Hugo. E dev'essere proprio così se un bel giorno di alcuni anni fa, J.R.S. (Bob per gli amici) Boas, già docente a Cambridge, e sua moglie Elisabeth, si ritrovano a cena nel ristorante della British School di Roma, con Anthony Majanlahti. I coniugi Boas coltivano da trent'anni il gusto di Roma, secondo uno stile che risale ai tempi del Grand Tour, quando in Italia arrivavano, per acculturarsi, giovani facoltosi stranieri e molti di loro finivano per metterci le radici. Si spiegano così i tanti Anderson, Barendson, Johnson, Stevens eccetera, che oggi senti parlare romano, napoletano e fiorentino stretto. Bob Boas (ce lo comunica nella prefazione al libro di Majanlahti), nel corso di tante vacanze romane e relative fervide «promenades», ha avvertito la mancanza di un libro che raccontasse le grandi famiglie romane «who made Rome», quelle che fecero Roma. Pensava ai Colonna, ai Chigi, ai Barberini eccetera. Ci pensava a tal punto da cullare l'i