Sidney Pollack dirige il documentario sull'architettura «perversa» di Gehry
Grande fustigatore della società e delle istituzioni americane con film che hanno lasciato il segno (da «Non si uccidono così anche i cavalli?» a «I tre giorni del condor»), fondatore con Robert Redford del Sundance Institute che ha rivitalizzato il cinema indipendente Usa, Pollack ha ricevuto un meritatissimo omaggio alla carriera al 32mo Festival del Cinema Americano di Deauville, corredato dall'abbraccio della devota Meryl Streep, che diresse ne «La mia Africa». Al Festival, Pollack ha anche presentato la sua ultima creatura, il documentario «Frammenti di Frank Gehry», dedicato al grande architetto del Museo Guggenheim di Bilbao e della Walt Disney Concert Hall di Los Angeles. «In tutto ciò che ha realizzato, Frank è di una originalità che, talvolta, sfiora la perversità - ha commentato Pollack - Siamo amici da anni e, quando mi ha chiesto di fargli il documentario, ho creduto che fosse impazzito. E non soltanto perché non ne avevo mai realizzato uno prima, ma anche perché non so niente dell'architettura». Come regista di film che differenza ha trovato nel girare un documentario? «La cosa che più mi ha sorpreso è stato l'alto livello di libertà che ti permette. Ero abituato a lavorare con 250 persone, a controllare ogni giorno i movimenti della cinepresa e degli attori, a risolvere tutti i problemi quotidiani di un'opera che costa tantissimi soldi. Il documentario ti libera da tutto questo: pensate che ho impiegato 5 anni per terminarlo. Mi piacerebbe poter trasferire nel cinema di finzione il senso di libertà che ho provato con questo lavoro». Tra i suoi film quale l'ha sorpreso di più? «"Tootsie", certamente. Non volevo farlo, ho detto di no 5 volte, perché la storia non mi convinceva: in partenza si trattatava di un tennista che diventa donna per vincere, finalmente, un torneo in cui da maschio non riusciva a primeggiare. In seguito il mio agente, che era lo stesso di Dustin Hoffman, mi propose di provarci solo per una settimana per poi decidere se andare avanti. Accettai e cambiai la storia in quella di un uomo che diventa migliore travestendosi da donna». In cinque film ha avuto come protagonista Robert Redford. È il suo attore preferito? «Robert è il tipico americano bello, biondo, con occhi azzurri, ma interiormente è molto complicato. E io ho cercato di filmare la sua complessità più che il suo aspetto esteriore. Robert ha fatto di tutto sullo schermo, western, polizieschi, commedie sentimentali, ha messo in scena l'America: lui è la metafora dell'America. Abbiamo un ottimo rapporto e dirigerlo sul set è facile, perché ha un eccezionale talento e adora recitare. Con Robert c'è un solo problema, è sempre in forte ritardo e questo può farti impazzire».