Sagge le partorienti degli eredi Avati
MARIANTONIA Avati è figlia del più celebre Pupi. Anni fa, per un parto prematuro, venne ricoverata al Gemelli, in corsia. A contatto con donne che non conosceva, più o meno nella sua stessa situazione, ma ovviamente con ambienti, condizioni e mentalità spesso molto distanti dai suoi. Una esperienza comunque positiva che adesso, a distanza di tempo, l'ha indotta a ricavarne lo spunto per esordire al cinema come regista (e produttrice), facendosi predisporre una sceneggiatura dal proprio fratello Tommaso. Il risvolto autobiografico le è servito quasi solo di riflesso perché, superandolo, ha preferito collocare l'azione del suo film, anziché ai nostri giorni, in quel 1947, a Roma, in cui ancora erano presenti e quasi attuali, i ricordi della guerra appena finita, con citazioni, perciò, a indicare una data, delle Fosse Ardeatine e di piazzale Loreto. Chi ricorda e racconta è Nina, una donna accolta nel reparto maternità di un ospedale perché, giunta all'ottavo mese di gravidanza, ha avuto dei disturbi. Attorno a lei, però, in quella corsia e in quei corridoi da cui la vicenda, dopo un breve preambolo, non si allontana più, altre donne, tutte in attesa e tutte, naturalmente, con i loro problemi, o familiari o sociali o di salute. I loro casi si snodano, intrecciandosi, con quelli della protagonista che fa anche da voce narrante. Senza esibire mai patetismi né forzature drammatiche, nemmeno quando al parto prematuro seguirà la nascita di un bambino che non sopravviverà. Tutto volutamente piano e disteso, invece, con gli accenti sempre diversificati su quelle donne, sui parenti venuti a far loro visita e, in qualche caso, su risvolti un po' complicati fatti emergere dal passato dell'una o dell'altra. A tratti si sfiorano dei climi claustrofobici, ma, quando si profilano, ci si rende presto conto che sono volontari: per rendere più evidenti le condizioni di quelle partorienti agganciate a momenti che solo l'evento atteso, e spesso temuto, potrà far superare. Il finale, appunto, non sarà positivo ma, psicologicamente, avrà portato la protagonista ad una consapevolezza maggiore (della vita, degli altri); con la conquista di una maturità responsabile. La regista esoridente riesce a farcene sentire la portata con modi sicuri, affidandosi a un linguaggio cinematografico che, nella sua coralità, non è mai né dispersivo né esteriore. Con le attenzioni giuste, invece, per i dettagli, le cornici, le atmosfere. Riflessi nella recitazione di tutte le donne che attraversano la storia. La più sensibile, Anita Caprioli (nella foto), nei disagi di Nina.