Quel kolossal bellico che ancora mette a nudo il lato oscuro dell'uomo
Mi perdonino i due autorevoli personaggi, e cerchino di capire. Perché anch'io ho le mie buone ragioni. Quando ripenso alla mia prima Iliade, mi torna in mente il professor Pietro Rainone, insegnante d'italiano al ginnasio. A quei tempi si era sempre in guerra: prima l'Etiopia, poi la Spagna, poi l'Albania e ci si accingeva (col consenso dei più, va detto) a buttarsi a capofitto nella mattanza della seconda guerra mondiale. Tale era il clima, e ad esso s'ispiravano i programmi del ministero dell'educazione nazionale. Libro e moschetto, balilla perfetto: l'Iliade costituiva la pièce de résistance, diciamo il piatto forte dell'istruzione pubblica. A partire dalle elementari, ce l'ammannivano in tutte le salse, forme e versioni. Alla facoltà di lettere dello Studium Urbis (da poco inaugurato), veniva propinata nella vulgata latina trecentesca di Leonzio Pilato, amico del Boccaccio; per gl'italianisti nelle rielaborazioni di Bruni, Valla, Poliziano e Salvini: non c'era che l'imbarazzo della scelta. Noi, povere animelle della scuola media, venivamo drasticamente affidati a Vincenzo Monti. Chi della mia generazione non ricorda l'incipit esaltante (da mandare rigorosamente a memoria con tutto il primo canto): "Cantami, o diva, del pelide Achille l'ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei..."? E qui, di prepotenza, entra in scena il professor Rainone. O dolcezze perdute, o memorie...caro, prezioso mèntore dei miei verd'anni, Pietro Rainone era un coltissimo siciliano dal sense of humour scintillante, che però, saggiamente, non trascurava d'applicare l'adagio secondo cui chi sta coi frati zappa l'orto. Il sabato, ligio al foglio d'ordini ministeriale, si presentava in classe in camicia nera e, imperturbabile, attaccava la sua lezione omerica. In questi precisi termini: «Vi premetto, cari ragazzi, che Vincenzo Monti, per suo conto poeta mediocre, nel tradurre Omero fu veramente pessimo. Non lo tradusse, lo tradì...». E qui faceva una pausa, per poi riprendere: «Omero, Omero...chi era costui? Sarà davvero esistito? Come che sia, noi ci troviamo a dover travasare quest'immane poema, probabilmente opera di più mani e teste, frutto di un'elaborazione protrattasi per tre o quattro secoli, nelle vostre minime miserabili capoccette. Vi confesso di sentirmi impari al compito. Però, però, però...». E il professor Rainone, tirando onestamente a campare, proseguiva nella sua splendida lectio, cercando di renderci il più possibile digeribili gli dei, gli eroi, i re, i farabutti, gl'imbroglioni, i furfanti, le puttane, i grandi valori, le inaudite abiezioni, gl'inganni, le gesta meravigliose, le atrocità e, soprattutto, il dolore e la gioia, la viltà e il tradimento, la crudeltà e la pietà che costellano lo straordinario affresco attribuito al Poeta Cieco. «Omero cieco? - s'interrogava Rainone -, è probabile che lo fosse diventato dopo aver ritratto, come mai nessuno prima e dopo di lui avrebbe fatto, la vita umana, che rappresenta, figli miei, nella sua globale spaventosa interezza, un qualcosa che non si vorrebbe dire né vedere». Poi, rendendosi conto di essersi spinto di là dal consentito, il mio buon professore provava a salvarsi (e salvarci) con un'immagine di circostanza e diceva: «Alle corte, cos'è l'Iliade? L'Iliade è la guerra. È l'inno alla guerra più diretto, pertinace e pervicace mai concepito da mente umana. Perché?, mi domanderete. Ma perché la guerra, tal quale risulta e risalta da questi terribili versi, soprattutto dalla fantastica "regìa" omerica, è la natura stessa dell'uomo. Gli Achei, i Troiani, Achille, Ettore, Paride, Agamennon