«Anche le verità più scomode potranno garantire nuova pace a chi ha vissuto quell'incubo»
Mi piacerebbe stringergli la mano. Avere un contatto fisico con lui». Di Vittorio Veltroni, scomparso quando lui aveva una manciata di anni, il sindaco di Roma non può pescare granché, nella scatola nera della memoria. Ma per disegnare la silhouette di quell'ombra, Walter ha trovato conforto in un paradosso. «Credo di essere diventato un uomo migliore proprio per aver conosciuto questa assenza. Ho attraversato il dolore, certo, ma poi, cercando la figura di papà, ho attraversato luoghi, esperienze, situazioni che mi riportavano a lui. Voci, aneddoti, racconti di suoi amici. E oggi vivo questo rapporto con lui con grande serenità: grazie a mia madre, straordinaria come lo sono sempre le donne di fronte a una tragedia. Ho capito che si può andare dentro ai vuoti, ed è un esercizio al quale mi sono dedicato, sempre più profondamente, da quando sono diventato io stesso genitore». Per intercettare il padre - ogni Padre - Veltroni ha buttato giù un romanzo, «La scoperta dell'alba», che dopo pochi giorni dall'uscita è già alla seconda ristampa. Scritto a penna su un quaderno: le pagine di sinistra per le correzioni, quelle di destra per la stesura. Tecnica da politico da larghe vedute? Chissà, forse già nella scelta su dove posare la biro l'inconscio girava a pieno regime, per una narrazione dove più volte si varca la soglia tra realtà e sogno - il confine caro a Schnitzler. «Ma non è come stare sul lettino dell'analista: qui i terapeuti sono i lettori. Io non sono uno scrittore, ma mi affascina la vertigine di inventare personaggi, essere padroni della loro vita e della loro morte». Veltroni, senza rivelare il colpo di scena finale: nel libro nulla e nessuno è come sembra. Ma qualunque verità appare più preziosa di ogni omissione. «È così. Parto dalla dimensione onirica di una telefonata a me stesso bambino, e in questo viaggio iniziatico in un tempo sospeso, pian piano tento di svelare gli enigmi della realtà. E il mio si rivela un approdo niente affatto buonista». A parte la figura del padre del protagonista, che non muore ma si dilegua improvvisamente, sorprende il ritratto della moglie: carrierista, lontana. Trascorre il suo tempo in una beauty farm. Nessun segno di intimità con il marito. «Sono scene da un matrimonio che sopravvive nonostante una frattura, che qui è la nascita di una figlia down. La donna sente su di sè la colpa di questa "bambina rotta", ma è poi lei ad agire pragmaticamente: va in America a riprendersela quando la piccola fa le bizze». La bambina si chiama Stella, e dice di voler esplodere in una pioggia d'oro come una supernova. Quel nome indica a un tempo ammirazione e distanza. «Stella? Era l'idea di una luce propria, che brilla indipendentemente dal resto. Qui c'entra molto la mia esperienza di sindaco. Ho conosciuto tanti ragazzi down, e sono affascinato dall'intensità delle emozioni che vivono ed offrono. Affrontano la loro situazione con una partecipazione molto fisica, fanno sforzi immensi per esserci, per non restare in disparte. È la priorità del mio lavoro a Roma, in questi anni. Sì, certo, le notti bianche sono importanti, ma il primo punto della mia agenda è arrivare alla cancellazione della lista di attesa per l'assistenza alle persone down. E agli anziani. Nessuno in questa città deve essere lasciato solo». Poi c'è il figlio adolescente del protagonista. Che a un certo punto fa un cazziatone formidabile al padre: e quella sua saggezza precoce sembra quasi la proiezione della nostra incapacità di essere genitori, in questi anni. «Sì, quel personaggio è un mosaico di tanti ragazzi che ho portato con me ad Auschwitz o in Mozambico. Giovani consapevoli, riflessivi, innamorati della letteratura, con un alto senso della vita. Sono loro la coscienza critica della generazione dei cinquantenni. Noi non siamo mai stati genitori autoritari, come lo erano stati i nostri. Certi miei compagni di scuola arrivavano con le gambe segnate dalle cinghiate. Ma se è cresciuta la qualità del rapporto tra