di CARLO DE RISIO CARCERE di Spandau, nei dintorni di Berlino, 17 agosto 1987.
Per il recluso Rudolf Hess, delfino di Hitler, che sconta la condanna a vita, la «routine» nella fortezza continua, con guardia montante a smontare, avvicendamento di personale, turni e relativi obblighi burocratici. Hess ha 93 anni ed è l'ombra del gerarca di un tempo, il fedelissimo che, in un'epoca lontana, ha scritto sotto dettatura il «Mein Kampf», la bibbia del Führer. In quell'accaldato pomeriggio di agosto del 1987, durante «l'ora di aria», Hess si avvicina a un angolo del cortile dove pendono alcuni fili elettrici inattivi, se li avvolge al collo e si lascia andare a terra, rimanendo soffocato. Quando viene soccorso, è troppo tardi. Il figlio Wolf, nell'apprendere la morte del padre, grida allo scandalo («Hess, è stato suicidato») e annuncia rilvelazioni clamorose: convoca una conferenza stampa. Ma poi non se ne fa niente perché Wolf, colpito da malore, non è in grado di parlare con i giornalisti. Una faccenda misteriosa, come lo è, in definitiva, il caso Hess. Nessuna indulgenza, nessuna riduzione della pena è stata mai presa in considerazione per il fantasma di Spandau. Perché? Che cosa si teme? Perché tanto accanimento contro un uomo allucinato, smemorato, non in grado di intendere e di volere? Oppure le cose non stanno in questi termini? Per norma scritta e codificata, era fatto divieto di parlare con Hess degli avvenimenti accaduti in Germania dal 30 gennaio 1933 (avvento al potere del nazismo) all'8 maggio 1945 (capitolazione del Terzo Reich). Segno che qualcosa poteva sempre affiorare da quella mente sconvolta e doveva rimanere segreta. Il mondo era andato veramente a rumore, il 10 maggio 1941, quando Hess aveva spiccato il volo da Augusta, diretto in Scozia, per incontrare il duca di Hamilton, da lui conosciuto in occasioni delle Olimpiadi di Berlino, nel 1936. Quel volo non poteva essere improvvisato. Tanto è vero che Hess aveva fatto applicare a un caccia bimotore Me.110 serbatoi supplementari, un radar speciale e strumentazione idonea per coprire una lunga distanza, sorvolando il mare del Nord. La disponibilità dell'aereo aveva riguardato lo stesso costruttore. Will Messerschmitt, e i voli di addestramento (ben 30) si erano susseguiti, nonostante i divieti di Goering, comandante in capo dell'aviazione, e dello stesso Hitler. Insomma, tutti erano al corrente di quegli strani preparativi. Che tutto questo armeggiare fosse sfuggito alla Cancelleria, è un ragionamento che non sta in piedi. Non tutti, ancora oggi, accettano la versione della «unilateralità» nella decisione di Rudolf Hess di tentare un approccio con gli inglesi per una pace di compromesso. E propendendo per una missione concordata con Hitler sulla base: «Se riesci, ti appoggio; se fallisci, ti rinnego». Hess, questo è certo, rischiò la vita e fu costretto a lanciarsi col paracadute, prima che l'aereo si schiantasse al suolo. Churchill, per distrarsi dalle fatiche di governo, stava assistendo a un film dei fratelli Marx, quando venne informato che il numero due della gerarchia nazista era atterrato in Scozia. «Il verme è nella mela», fu il sibillino commento del Primo Ministro inglese. Che cosa voleva dire? Forse che nell'establishment britannico non tutti erano contrari a tentare un approccio con i «nazi»: i duchi di Windsor, che ne facevano parte, erano stati allontanati da tempo nelle Bahamas. Lo stesso «contatto» di Hess in Scozia, il duca di Hamilton, venne diffidato dal prendere iniziative non in linea con quelle del governo. Questo sposta il discorso sulla «visione» hitleriana circa il Regno Unito. Sul campo di Boulogne, dopo la sconfitta della Francia, Hitler aveva sbalordito i suoi generali, parlando con ammirazione dell'impero britannico, della necessità della sua esistenza e della civiltà che la Gran Bretagna aveva apportato al mondo. Aveva paragonato l'impero inglese alla Chiesa cattolica, dicendo che l'uno e l'altra erano elementi essenziali per la stabilità del mondo. «Il signor Ch