di EUGENIO ZACCHI NAGIB Mahfuz era un ricercatore della realtà dell'uomo, nel bene e nel male, nelle ...
È stato il primo e finora unico scrittore arabo, nel 1988, a vedersi attribuire il premio Nobel: prova sicura che i suoi orizzonti artistici, partendo dall'analisi della natìa Cairo, si erano elevati a risultati così universali da rendere la coscienza umana, seppur diversificata nell'educazione, il tratto comune e dominante in cui immedesimarsi. La sua "storia", cominciata nel 1911, lo vide, fin dagli inizi, osservatore, solo all'apparenza distaccato, di quella della sua patria, l'Egitto, alla quale dedicò le prime prove letterarie. Poi la svolta. Con "Vicolo del mortaio" (1947), e la trilogia composta tra il 1946 e il 1952 ("Tra i due palazzi", "Il palazzo del desiderio", "La via dello zucchero"), Mahfuz divenne l'interprete illuminato di un "verismo" egiziano, dolente e misero, ancorato alle tradizioni, ma già pronto a risolversi in una struggente compostezza nel ritrarne l'irreversibile disgregazione. La sua letteratura varcò i confini e accolse il plauso da parte di critica e pubblico per il suo gusto esotico e raffinato, per la sua scrittura capace di far luce sugli aspetti più nascosti e profondi della nostra natura, per la capacità di sperimentare nuove forme narrative, più moderne, testimoniate da brevi ma folgoranti romanzi come "Il ladro e i cani" (1961). L'uso frequente, e disinvolto, dei dialoghi, dei flashback e dei monologhi, tratteggia un'anima costantemente pronta a far propri i movimenti più sofferti e lucidi della condizione esistenziale, nella sua più asciutta consistenza e cruda verità che documenta e non giudica, come "Nel tempo dell'amore" (1980) e "Qushtumar cafè" (1988). Suo è anche un vasto affresco storico sulla civiltà dei Faraoni ("Radubis", scritto nel '43), mentre "La saga degli Harafish", del 1977, è una delle opere più significative. Scrittore anche odiato, Mahfuz. Accusato di blasfemia dagli integralisti islamici, tanto che alcune delle sue opere sono state all'indice per anni nello stesso Egitto: le autorità religiose le giudicavano «irriverenti verso la religione». Negli ambienti della Jihad islamica, fu pronunciata contro di lui una condanna a morte, come per l'indiano Salman Rusdhie. A scatenare la persecuzione, il suo libro più contestato, "I ragazzi del nostro quartiere", scritto nel 1959 e a lungo censurato in Egitto e in Libano. Per lui, le prime minacce di morte arrivarono un anno dopo il Nobel. La polizia gli offrì protezione. Lui, a 77 anni, rifiutò: «potrebbe disturbare la mia vita e sconvolgere le mie abitudini quotidiane», spiegò poi. La Jihad passò ai fatti il 14 ottobre del '94, nel sesto anniversario della assegnazione del Nobel. Mahfuz, appena uscito di casa, stava salendo sull'auto del quotidiano "al Ahram", sul quale teneva una rubrica settimanale. L'attentatore gli sferrò due coltellate alla gola. Lui si salvò per miracolo. Per l'attentato vengono processati sette estremisti islamici. «Abbiamo scelto il coltello - confessano - perchè la Jamaa Islamiya voleva torturare la vittima a lungo prima di farla morire di morte lenta». Due di loro saranno impiccati. Mahfuz, che non amava spostarsi dal Cairo (alla cerimonia del Nobel mandò i familiari, e a loro fece dire: «So che molti di voi non sanno neppure chi io sia. Perciò mi presento...Sono figlio di due civiltà: quella dei Faraoni e quella islamica») se n'è andato portando via con sé le radici della vita, non senza raccontarcele nella loro più autentica quotidianità, non senza sperare in un mondo più aperto a benevole intenzioni. Così scriveva in "Vicolo del mortaio", ambientato nella Cairo della seconda guerra mondiale: "L'invidia è peggio della malattia. È un sentimento tristo; sono molti quelli che invidiano i loro simili per beni passeggeri, ma tu non disperare e non ti rattristare, prega il Signore Iddio che è clemente e misericordioso". Ora, passeggiando per le strade del Cairo, pur intersecate da un sistema ossessivo di sopraelevate, d