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Le mille storie dei «fiumaroli» in una città spesso indifferente

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Inamovibili, indimenticabili. Tutta colpa dello "zio Tidde" (in realtà si chiamava Emachilde, ma in casa, per comprensibili ragioni pratiche, era stato riconvertito a quel nomignolo): un omaccione tutto muscoli e affetto che, fiumarolo e irriducibile scapolo, vide sùbito in me il figlio che gli mancava. Ovviamente e alla sua maniera, mi colmava di cure e attenzioni. Tra cui quella di eleggermi a compagno fisso delle sue regate domenicali lungo il Tevere. Zio Tidde era un canottiere formidabile, capace di solennizzare il week end, con la sua jole, in solitaria letizia, dal galleggiante della Rari Nantes fino a Fiumicino, e ritorno controcorrente. Altri tempi, altri fusti. Per cui era assai difficile, a un uomo del genere, quando arrivava e diceva: «Er pupo viè co' mme a ffiume», opporre una qualche efficace resistenza. Una brutta domenica, che ti va a succedere? Succede che, in direzione contraria alla jole, ecco sopraggiungere, in pieno veemente allenamento, l'otto dei corazzieri, dotato palesemente di un pessimo timoniere. Distratto al punto che l'imponente barca quasi c'investe, sicuramente ci sfiora, e il sottoscritto innocente pargolo si becca in piena faccia una palata di quelle che ti buttano in acqua. E che lasciano il segno. Chi mi conosce può garantire che, a distanza di tanti anni, quel segno permane. Venni poi salvato dallo zio Tidde, che nuotando mi riportò a riva come un fagottino di stracci: era il minimo che potesse fare. Ma io, quell'acqua tiberina, avevo avuto modo di assaporarla per bene. E sapeva di buono, come pure il suo profumo. Sì, perché il Tevere aveva un suo profumo. Fantastico e, ripeto, indimenticabile. Provo a descriverlo: un misto di erbe, noce di cocco, sentore di stuoia e, sì, anche piscio di gatto. Ma è più probabile che si trattasse di orina di ratti, dal momento che le "sorche", a Roma, l'hanno sempre fatta da padrone. Memorabile, nella storia abbastanza recente, l'ansia con cui Amerigo Petrucci, nella sua bella casa dei Prati moraviani, diceva al giornalista amico: «Bisogna fare qualcosa per il Tevere!». Amerigo era un democristiano di scaturigine andreottiana (all'epoca lo erano tutti) assurto al seggio di sindaco quando il Campidoglio non era ancora divenuto feudo della sinistra. Tondo, lustro e occhialuto, il sindaco, qualche libro aveva pur letto, qualche viaggetto all'estero se l'era fatto. Per cui, quando esortava a "fare qualcosa per il Tevere", mica pensava, chessò, a disinquinarlo. No, lui pensava a organizzarlo, arredarlo e gestirlo sullo stile di altri fiumi di altre capitali europee. Che ne sapeva, lui, nato e cresciuto in parrocchia, del Tevere dei fiumaroli, di Ponte Mollo e dei "polverini"? Che ne sapeva, lui, di zio Tidde? Niente. Lui, il bravo sindaco della Balena Bianca, si limitava a vagheggiare, in maniera ancora indistinta e confusa, dati i tempi, la "fluvialità" di una Roma a venire, ispirata ai modelli stranieri. Insomma, il caro Amerigo buon'anima, già sognava un Tevere e una Roma "globalizzati". A realizzare quel suo sogno avrebbe provveduto, quarant'anni dopo, la sinistra dell'Estate Romana. Fu proprio da Francesco Rutelli, all'esordio come sindaco, che appresi che "qualcosa si stava movendo" sulle prode tiberine nel senso auspicato dal compianto Petrucci. C'incontrammo per caso al Tevere Expo. Io volevo parlare a Rutelli della Fontana delle Naiadi (opera insigne di un suo avo), che necessitava di una sollecita "romanella"; lui pensava ad altro, al "rilancio del Tevere" coi bateaux mouches alla parigina, le spiagge, i lounge bar, le aree-benessere e le postazioni WI FI. Io avevo in testa il passato; lui, il vulcanico Franceschino, immaginava invece il futuro immediato. Aveva ragione lui. Che, in riva al Tevere, a Ripetta, già stava debuttando con l'Ara Pacis inscatolata da Meier & C. C'era una volta il Ponte Sant'Angelo di Dante ("lo ponte che mena a Santo Pietro") e c'era il ponte con gli angeli del Bernini (in originale ora son visibili a Sant'A

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