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Esce «La scoperta dell'alba» tra Storia e autobiografia

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Ma l'ancor giovane Uolter, come lo chiamano i suoi amici cineasti di Los Angeles, è carattere dal multiforme ingegno. Ed io, se mi perdonate questa botta di presunzione, l'avevo capito molto, ma molto tempo fa. Erano i bei tempi in cui sbocciavano all'improvviso Veltroni e D'Alema, i Dioscuri di Botteghe Oscure: non proprio "figli di Giove", come suggerisce l'etimo, ma del comunismo ancora rampante. Bastava frequentare la piccola trattoria che sorge a pochi passi dalla sede del Pci per saggiare il futuro: dai cameriere al cuoco, tutti prevedevano che "la strana coppia" ci avrebbe fatto ballare a modo suo, ciascuno con la sua samba. Ma mentre Massimo aveva l'aria di un maestro di valzer prussiano, tutto lustro dai tacchi ai riccioli, Uolter incedeva un po' dinoccolato, come un personaggio alla Woody Allen. Insomma, Baffetto-Massimo era una copia aggiornata di von Clausewitz, lo stratega; mentre Minimo-Walter ricordava, nella vita e nella ispirazione letteraria, la febbrile esistenza di Francis Scott Fitzgerald. Anche Fitzgerald diceva, ben prima di Veltroni, nei "ruggenti anni Venti": «Ho sempre vissuto di corsa, su una pista accidentata da spleen». Con un titolo felice La Stampa di Torino annuncia che il 30 di agosto uscirà un romanzo, molto autobiografico, di Walter Veltroni: "La gioiosa macchina da scrivere". È un riferimento ironico a quell'altra frase pronunciata da Achille Occhetto, fondatore del Partito Democratico, dopo la fatale caduta del Muro e dell'Impero Sovietico: "La gioiosa macchina da guerra". Quando gli sfuggì di bocca, tutto poteva immaginare il povero Akil, ma non che gli avrebbe portato jella. Difatti la macchina si liquefece, investita dal fuoco del Cavaliere. Chi ha frequentato Veltroni, sia pure superficialmente, sa che è persona molto cortese, che sorride a tutti. Ma il suo sorriso ha un fondo triste. I soli momenti in cui dicono si sbarazzi della malinconia è la mattina presto, sotto la doccia. E lì, con il conforto dell'acqua fumante, si mette pure a cantare. E cosa canta, il Walter dal multiforme ingegno? Non "Vorrei e non vorrei - mi stringe forte il cuore" di Amadé Mozart: ma un più casereccio Ivano Fossati, che in una canzone così dice: "È tempo che sfugge, niente paura / che prima o poi ci riprende / perché c'è tempo, c'è tempo, c'è tempo, c'è tempo / per questo mare infinito di gente". E qui il lettore curioso, specie se progressista, vorrà sapere di che parla il romanzo; di quale trama è fatto. Io il romanzo non ce l'ho tra le mani, ma conosco qualcuno che ha avuto il privilegio di scorrerlo in anteprima. La storia s'apre con una telefonata, ed è come si spalancasse una finestra sul mondo, il mondo di ieri: gli anni Settanta, piombo e morte, gli assassinii di Moro e Bachelet, le Brigate rosse, e infine il ricorrente personaggio del padre, che Walter non ha quasi conosciuto, ma che sente appiccicato addosso come una seconda pelle. A questo punto mi salta agli occhi un'inquietante somiglianza di temi e di sentimenti; e come "c'è del marcio in Danimarca", secondo Shakespeare, così c'è un pizzico di Amleto in questa "Scoperta dell'alba" veltroniana. Al pari di Amleto, Veltroni insegue il fantasma del padre; e gli pone domande, lo vorrebbe afferrare e scuotere. Ma il fantasma non risponde. Perciò Shakespeare scrive la commedia e Veltroni il suo romanzo, dove l'Io rammenta, grida e sanguina. Qualche anno fa Veltroni ed io ci siamo incontrati in un fatiscente villone romano, per non so quale congresso politico o letterario. A un certo momento ci siamo allontanati dalla folla, e abbiamo chiacchierato sul fantasma che insegue Amleto. Fuor di metafora, sul padre di Walter, Vittorio, che io ho conosciuto a vent'anni in una redazione Rai. «Com'era Vittorio, a lavorarci insieme?» mi domandò Walter. Ed io: «Perfezionista, era. E molto esigente. Devi aver preso tutto da lui». La settimana prossima uscirà "La scoperta dell'alba" e vorrò vedere se mi inchioderà alla

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