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Romani, da sempre un popolo di immigrati

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L'altro giorno, al mercatino sottocasa, ho sentito una matrona di quartiere uscirsene in questi termini: «Mo', co' la valanga che se prepara, nun se potrà più sortì de casa». A piccolo e medio livello culturale, è la legge ultima sulla «cittadinanza facile», a mettere paura. «Se apriamo le porte a tutti - si domanda legittimamente la gente - dove andremo a finire noi, e i nostri padri, che in questo Paese ci siamo nati?». A Roma - meglio dirlo sùbito - un quesito del genere si pone da tempo immemorabile. Basti pensare che, al tempo dell'imperatore Traiano, quando Roma dentro le mura già faceva più di un milione di abitanti (la seconda città più popolosa al mondo allora conosciuto era Cerveteri, 70mila, davanti ad Atene che ne annoverava 30mila), solo un quarto della popolazione era composta da «nativi di Roma». I restanti tre quarti provenivano da altri paesi, erano insomma «immigrati». Singolarmente, questo rapporto di 1 a 4, ha continuato a caratterizzare la minoranza dei «romani de Roma», per tutti i secoli successivi. Nel 1527, subito dopo il flagello del «sacco», quando all'interno del pomerio i romani sopravvissuti si erano ridotti a meno di 50mila, ebbene, appena 13mila risultavano - si fa per dire - iscritti all'anagrafe capitolina. Dopo Porta Pia, nel 1870, Roma vantava 150mila abitanti: i nativi risultavano essere poco più di 30mila. Gli altri avevano tutti origini aliene. Non conosciamo esattamente i dati odierni, ma, state tranquilli, l'antico rapporto non vi apparirà granché alterato. I romani con certificato di nascita costituiscono anche oggi un'esigua minoranza. Roma è da sempre una città crogiuolo, atta a fondere uomini delle più svariate razze, di ogni provenienza. Sulla scorta di questa realtà, gli intellettuali, sempre ottimisticamente disposti, proclamano l'universalità dell'Urbe, mentre tutti i «romani de Roma», di grande o minuta condizione, a sentirsi minoritari in casa propria, diffidano dei «barbari» e, nel loro piccolo, s'incazzano. «Ma tutti qqui, 'sti rompicojjoni!», è un'eclamazione che punteggia da secoli e secoli l'azzurro etere capitolino. Del resto, vi siete mai chiesti da dove tragga origine la parola «patrizio». Bene, nella Roma antica si dicevano patricii, e cosituivano la classe eletta, tutti i cittadini che potevano vantare un padre nato a Roma, quindi una familia, e nei casi di vertice una gens, come nel caso dei Giulii, dei Flavii o dei Fulvii. Costoro, i patrizi, al pari degli equites, disponevano di un prenome, di un nome e di un cognome. Tutti gli altri, niente, erano plebe, incita quanto si vuole, ma sempre plebe, O, peggio, schiavi. Che avevano diritto a un solo nome. Come Polibio, il ricchissimo celeberrimo liberto per cui Seneca scrisse una delle sue «Consolationes»; bene si chiamava Polibio tout court. Avete notato le tante antiche torri che punteggiano il litorale tirrenico nel tratto laziale (Torre Astura ecc., tanto per capirci)? Tutte torri d'avvistamento erette nei punti strategici, contro le temutissime incursioni dei pirati saraceni. A perenne testimonianza che a Roma certe invasioni di forestieri non sono mai state ben viste. Ecco, il termine «forestiero» viene giusto a proposito. È la parola, secondo la spiegazione e l'uso belliani, che, corrompendosi, origina l'espressione «frocio». Fino a pochi anni fa, prima che il politically correct venisse a ripulire la lingua nostra, «abbietta e buffona» sempre secondo il padre Belli, se davi del «frocio» a qualcuno non era per fargli un complimento. Come pure nel caso di «burino», appellativo di minore veemenza, ma pur sempre un insulto rivolto a chi veniva da fuori. Così, con la parola sprezzante, talvolta con l'irridente dileggio, nei tempi andati, l'anima della minoranza dei «romani de Roma», cercava di esprimere una protesta, abbozzare una difesa contro l'esondare degli «ultimi arrivati». Eppure, nel corso dei secoli, Roma non ha fatto che «inventarsi l'emigrazione». Forse, senza volerlo. Sta di fatto che, costi

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