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di FULVIO STINCHELLI AMADEI e la Roma? Un capriccio, un sogno, una sfida, una "tigna".

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Pretese di sapere prima quanti soldi e quali giocatori sarebbero andati alla Lupa. Pose quindi ai dirigenti del Biscione la sua personale, irrinunciabile, condizione: «Io, contro la Roma, non scenderò mai in campo...sarebbe come dare una coltellata a mia madre». Molti anni dopo, domandai all'interessato conferma dell'episodio. Mi disse allora, con un sorriso mezzo mezzo: «Sai, se ne dicono tante...». In questa risposta c'è tutto Amedeo Amadei, atleta e uomo riservatissimo, a tratti scorbutico, per nulla incline all'esibizionismo. Da ragazzo, agli esordi calcistici, venne giudicato schivo, scontroso e perfino timido. Errore. Amedeo esprimeva piuttosto, fin da quei primi passi, un carattere da romano antico, in cui la gravitas, come somma di serietà, zelo e senso di responsabilità, aveva un peso determinante. Un carattere che si tira dietro ancora oggi, a ottantacinque anni sonati. Mi riferiscono che, giorni addietro, a un giornalista che gli chiedeva di poterlo incontrare ad un'ora "più comoda", abbia risposto: «Io faccio il pane e devo svegliarmi presto. Spiacentissimo, ma l'ora non si cambia». Chi conosce il fenomenale attaccante degli anni '30-'40 troverà questa risposta a lui somigliantissima. Amadei, infatti, non ha mai smesso d'infornare pagnotte. Non smise quando giocava nell'Atalanta, nella Roma, nell'Inter, nel Napoli, e neppure da centravanti della nazionale azzurra. Era insomma una star indiscussa del calcio, ma in cuor suo restava il "fornaretto di Frascati", perché, come ebbe spesso a ripetere, «il calcio non fa che restituirmi quel che la vita mi ha tolto». E diceva il vero, perché coi soldi del pallone (sarebbero stati tanti di più se la guerra non gli avesse troncato la carriera nel bel mezzo), fece per prima cosa ricostruire il forno di famiglia andato distrutto nel 1943 sotto i bombardamenti. Maestri impastatori ai Castelli Romani fin dal 1876, gli Amadei si producono tuttora in loco con arte e dignità immutate. Ho detto di Amedeo: un romano antico. So che la definizione gli fa molto piacere. Come, agli esordi, lo mandavano in bestia i tifosi più beceri che, al primo errore, gli urlavano addosso: «A bburino!». Punto sul vivo, un bel giorno, segnò una tripletta e ribaltò il risultato. Estasiata da tanta valentia, la mutevolissima folla quirite prese allora a cantare: «Amedeo, sei tutti noi». Al che il "fornaretto" si volta verso il pulvinare gridando a sua volta: «Ma allora, morammazzàti, sete tutti bburini come me!». L'episodio, riferito da Marco Impiglia, scrupoloso biografo del campione tuscolano, non fa una grinza. A quei tempi, neppure tanto remoti, un frascatano, specie per i romani di lega più bassa, era un "burino". Una "pecetta" che nei ricordi del puntero romanista ha continuato a pungere per gran tempo. Tanto da indurmi, anni fa, a citargli una lettera di Cicerone in cui l'Arpinate, da poco divenuto console, spiega ad un amico di essere ormai civis romanus ad ogni effetto, dal momento che ha "preso casa al Tuscolo". «Bene, se l'ha detto Cicerone - fu il commento del campione rasserenato -, la questione mi pare risolta». La carriera agonistica di Amedeo Amadei durò vent'anni di cui dieci nella Roma (264 presenze, per un totale di 146 reti). Con lui, la Lupa vinse il suo primo scudetto. E l'immaginifico Bruno Roghi, sceso nella Capitale per dirigere il Corriere dello Sport, gli mise in testa la corona di "Ottavo re di Roma". Nessuno è più riuscito a togliergliela. Neppure il "divino" Falcao. In casa mia il nome di Amedeo Amadei arrivò abbastanza presto, quando io facevo le elementari e la sua fama era ancora di là da venire. Fu Armando Lugari, uno sportivone amico di mio zio Peppino, che guidava la società ciclistica di Frascati. Disse il Lugari: «La Roma ha messo gli occhi sul figlio di Amadei, il fornaio. B

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