A 40 anni dalla morte ancora ci si interroga su di lui
Non a caso scrisse un libro provocatorio: «Donna come me». A quaranta e più anni dalla morte, qualche biografo ancora si chiede: ma Curzio Malaparte, da Prato, quale rapporto aveva con l'altro sesso? Si sa che molte donne, sia plebee che aristocratiche, hanno fatto pazzie per lui. Una ricca turista americana si è addirittura uccisa, gettandosi a mare, dopo che lo scrittore l'aveva abbandonata. Ma a dar retta alla vulgata che l'ha tallonato nei 59 anni di sua vita, Curzio fu l'epigono del Dongiovanni mozartiano, cinico e narcisista, più interessato a sedurre l'anima delle donne, che a giacere nei loro letti. Rievocando gli anni della nostra amicizia, o rileggendo le sue lettere scritte su carta azzurrina, sono portato a pensare che Malaparte abbia amato una donna sola: la enigmatica, e per cerri versi scandalosa Virginia Agnelli, madre di Gianni (l'Avvocato), che sfidò la Torino ipocrita e sabauda per seguire l'artista bohèmien. Virginia morì in un incidente stradale, a un passaggio a livello, mentre l'autista di famiglia la stava accompagnando alla villa di Curzio, in Forte dei Marmi. Una mattina mi chiese di accompagnarlo sul luogo della tragedia, come uno che fa visita a un cimitero. Mi voltai a guardarlo mentre fissava l'asfalto screpolato della via Aurelia: aveva gli occhi gonfi di un pianto mal trattenuto. Se dunque escludo Virginia, che egli esaltava come Petrarca la sua Laura, Curzio era piuttosto diffidente, o addirittura sferzante, con le donne che gli giravano attorno. I suoi scatti di misoginia affiorano con evidenza da una sua lettera che ho appena ritrovato, e con la quale tentava di consolarmi di un amore infelice. Ne traggo due righe appena: «E ricordati che le donne, nessuna esclusa, si innamorano di chi le tratta come puttane...». Curzio era chiuso di carattere, permaloso e avaro di sé; durante i nostri lunghi viaggi, fatti sulla Oldsmobile decapottabile che aveva comprato con i diritti d'autore di «Kaputt», non ha mai confessato né una scappatella erotica né un sentimento d'amore. Una sera, a Plombières, dove c'eravamo fermati per «passare le acque», incontrammo due sontuose ballerine che avevano lavorato al Lido di Parigi. Ma finita la cena, cui le avevo invitate, Curzio si scusò con il pretesto che «doveva finire un racconto». E difatti, dalla mia stanza attigua alla sua, lo sentii picchiettare sulla Olivetti fino alle ore piccole del mattino. Nelle foto di lui che conservo, mi accorgo che non sorride mai; ha sempre quell'aria distante di bel tenebroso. Eppure, durante le vacanze, amava scherzare e raccontare freddure che lo facevano sganasciare fino alle lacrime. Tra le storie che più mi hanno impressionato, c'è lo scherzo che Curzio avrebbe giocato a Tatiana Pavlova, una celebre attrice e regista russa, che ottenne un enorme successo nei teatri italiani degli anni Venti. Mi pare ancora di sentirlo, Curzio, mentre guida lentamente sulla strada di Parigi: «Tatiana aveva una bella faccia tragica, degna di Anna Karenina; quand'ero un giovanotto squattrinato faceva il tutto esaurito al botteghino ed era osannata dalla stampa. Un giorno le mandai dei versi, dentro una busta, accompagnati a tre violette. Non rispose. Allora una sera irruppi nel suo camerino, mezz'ora prima che andasse in scena, e appena aprì la porta, mi buttai alle sue ginocchia: "Madame, dissi, sono il poeta che vi adora, e che voi ignorate. E siccome non posso vivere senza di voi, ho deciso di uccidermi". A quel punto ho estratto una pistola-giocattolo, e mi sono sparato un colpo alla tempia. Nel cadere a terra, mi sono macchiato la guancia di vernice rossa. Credendo fosse sangue, il sangue di un moribondo, la povera Tatiana cacciò un urlo e chiamò gente. Sennonché spalancai gli occhi: "Ma cosa gridi, stupida: mi sono sparato con una ciliegia!"». Non riuscì a farmi a ridere, Curzio: c'era qualcosa di troppo crudele e surreale. «L'hai mica fatto sul serio?», dissi. E lui, con un'occhiata beffarda: «No,