Era il re di Testaccio. Da allenatore vinse due scudetti
Sempre al centro del balletto degli omaggianti: giornalisti, dirigenti o brubrù in ascesa, lui si chinava ora verso destra ora a sinistra con benevola, papale degnazione. Mai visto levarsi in piedi per restituire un saluto. O meglio, una volta ci fu. Accadde al vecchio Olimpico, prima del rifacimento mondiale, con la Roma di Dino Viola che aveva incominciato a far paura alla Juventus di Gianni Agnelli. Quando dalla porta a vetri di fondo il pontefice massimo del giornalismo sportivo vide spuntare la figura di Fulvio Bernardini, si rizzò con insospettata agilità dal posto in cui era da tempo insediato e protendendo le mani verso il nuovo arrivato lo gratificò di uno squillante «dottore carissimo». Sì, perché "Fuffo", come lo chiamavano teneramente i suoi primi tifosi, ormai da anni, dal tempo in cui il suocero, Guglielmo Giannini, quello dell'Uomo Qualunque, aveva preteso da lui anche una nuova dignità accademica, con la laurea in scienze economiche e commerciali, era divenuto per tutti, nel piccolo mondo del pallone, il "dottore" per antonomasia. I suoi giocatori, alla Fiorentina, al Bologna, alla Roma, eppoi in Nazionale, non gli diedero mai del "mister", ma sempre del "dottore": un distinguo non di poco conto. Romano del rione Monti, Bernardini aveva esordito alla Lazio (la Roma era ancora in mente dei). Grandissimo talento naturale, bruciò le tappe: a 19 anni era già nazionale. L'Italia calcistica gridò al miracolo: era il primo giocatore prodotto dal derelitto football centromeridionale a vestire la maglia azzurra. L'anno dopo, nel 1926, fatalmente, l'Inter, che allora si chiamava Ambrosiana, se lo cuccò. Ma col Biscione di Luigi Cevenini, Fulvio restò un paio di campionati, non di più. Nel frattempo era nata l'Associazione Sportiva Roma e due "sirene" lo richiamavano in patria: Renato Sacerdoti e Attilio Ferraris. E qui occorre spiegare la natura e lo spirito del sodalizio, singolarissima alliance, che negli anni del primo fulgore romanista, legò Bernardini a Ferraris IV. L'uno monticiano beneducato, razionale, a volte molto formale, era calciatore in cui piedi buoni e cervello si saldavano in splendida sintesi: era nato per pensare calcio. L'altro, figlio di un aggiustatore di bambole piemontese, il signor Secondo, era nato calcisticamente nel cortile di Fratel Porfirio di Nostra Signora della Misericordia, un fratone geniale che dalle "lenzette" di Borgo, sboccate ma dotate, riusciva a cavare ottimi giocatori della Fortitudo 1908, quali Degni, Bramante, Chini, e anche un fuoriclasse, per l'appunto Attilio Ferraris. Nella vita e sul campo, Attilio era giusto il contrario di Fulvio: impeto al posto della tecnica, irriducibile spirito combattivo in luogo della sagacia tattica. Ora, intendiamoci, non è che Attilio fosse uno scarpone: era un magnifico agonista, tanto che Vittorio Pozzo, nella sua nazionale bicampione del mondo, al genio sovrano di Bernardini preferì sempre la stradarola irruenza di Ferraris. Ma siccome, nel nostro vivere, accade spesso d'esser portati ad amare ciò che non ci somiglia, fu così che "Attiliaccio", che s'era fatto le ossa nei vicoli di Borgo, prediligesse, anzi venerasse, il campione monticiano dai modi freddi e distaccati. Lo amava al punto che quando si trattò di nominare il capitano della prima grande Roma, la loro Roma, quella degli anni Trenta, se ne uscì con la benedizione divenuta poi famosa: «A Fu', ma sì, fàllo te er capitano, tu sei er mejjo... Eppoi è 'na bella rottura de cojoni». Fu così che "Fuffo" entrò nel cuore dei tifosi giallorossi, anche se lui non s'abbandonò mai a lenocini per ingranziarseli. Fu così che Bernardini divenne il più grande giocatore romanista di ogni tempo. Aveva un sinistro fenomenale, ma anche il destro era super. State a sentire: dalla natìa Verona venne in prova Guido Masetti (il portiere del primo scudetto), e, alla fine, del test, Fulvio sentenziò: «Ha parato due sinistri dei miei: prendiamolo». Ma i piedi, s'è