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La rivincita degli «indigeni»

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Come questa volta, con la presentazione in Piazza Grande (pioggia permettendo) di un film polemico già fin dal titolo, «Les indigènes» e cioè «Gli indigeni» un termine non certo rispettoso con cui gli ufficiali francesi, nell'Algeria fra il '44 e il '45, definivano gli algerini che avevano arruolato per andare a liberare la Francia dall'esercito di occupazione tedesco. Ce lo spiega, e vi svolge tutte le implicazioni conseguenti, un noto regista nato a Parigi, ma di ascendenze algerine, Rachid Bouchareb, che porta in primo piano soprattutto quattro magrebini partiti volontari, al momento della costituzione di un reggimento «coloniale», ciascuno con motivazioni diverse. Uno per denaro, un altro nella speranza di sposarsi una francese, un terzo perché, servendo la Francia, pensa di sottrarsi a quelle discriminazioni di cui i francesi colonizzatori fanno soffrire gli algerini, un quarto, finalmente perché crede alla causa della Francia in lotta per la libertà che i tedeschi, occupandola, le hanno sottratto. Rachid Bouchareb segue da vicino le vicende personali dei quattro, facendole però procedere di pari passo con quelle del reggimento in cui sono inquadrati. Un lungo itinerario, tra un combattimento e delle brevi pause, che via via li portano, dalla Provenza dove sono sbarcati, fino nei Vosgi e poi, per uno scontro all'ultimo sangue, per liberare l'Alsazia ai primi del '45, pronti a congiungersi con gli americani in arrivo. Forse, più dei casi singoli, pur sviluppati con attenzione (specie quando, in linea con il titolo, si tende a sottolineare la scarsa considerazione degli ufficiali francesi nei confronti di quei magrebini pur così validi nel dar loro man forte), si impongono nel film sia la situazione «storica», fin qui del tutto ignorata, sia la rappresentazione di quella guerra fra colline riarse o, invece, coperte di neve in cui , a poco a poco, quasi tutti i protagonisti lasciano la vita. Senza il clamore e la retorica di tanti film di guerra, ma invece con un realismo asciutto che riesce sempre a far andare di pari passo i casi singoli e gli eventi corali. In modo piano, anche sotto le bombe, e con una costante malinconica di fondo. Alla fine infatti, sessant'anni dopo, l'unico superstite andrà a visitarli tutti, in Alsazia, sepolti in un cimitero di guerra che, dice, su ogni tomba «morto per la Francia». Gli «altri», però, avevano continuato a definirli «indigeni».

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