di GIAN LUIGI RONDI DI FRANCESCA Bertini, la prima Diva, io ho conosciuto solo il tramonto.
Nei '50, però, quando la chiamavano la "maggiorata", dopo il celebre «Processo di Frine», con De Sica, in «Altri tempi» di Blasetti, io avevo già visto in lei delle doti di attrice che andavano oltre la sua apparenza più vistosa. Certo, era bella. Tanto da poter interpretare, per Robert Z. Leonard, un film su Lina Cavalieri in cui si lasciava definire «la donna più bella del mondo». Ma quelle doti istintive, gli studi che aveva fatto, anche all'Accademia di Belle Arti, i grandi registri con i quali aveva lavorato (da Blasetti a De Sica a Clair a Castellani a Siodmak a Bolognini) avevano affinato le sue possibilità, le avevano insegnato a dominare la sua presenza in scena. Facendone un'attrice in cui si poteva coniugare senza difficoltà quel binomio "bella e brava" che al cinema si propone di rado. Naturalmente, tuttavia - salvo in interpretazioni di qualità salde come in «Pane, amore e fantasia » di Comencini e in «Mare matto» di Castellani - arrivando a imporsi specialmente per la sua statura di diva acclamata da tutti. Anche oggi che veleggia verso gli ottanta (da non crederci a vederla), quel termine, spesso con la precisazione di "ultima", sento di poterlo giustificare. Non certo per gli atteggiamenti "divistici": non l'ho mai vista posare, non ho mai saputo che facesse capricci sul lavoro, neanche quando interpretava, fra gli schemi difficili di Hollywood, un film dietro l'altro. Non l'ho mai vista darsi un contegno diverso da quello, schivo e tranquillo, cui ricorreva con tutti. Se dico «diva» è perché, dovunque, l'ho vista salutata come tale da folle d'ogni lingua, da uomini e da donne, da gente di cinema e da estranei. Con una popolarità che l'ha accompagnata per anni. E non solo in Italia. L'ho verificato di persona, del resto in occasione di un viaggio che ci aveva portato addirittura in Asia, prima a Hong Kong e poi a Tokio. Avevano cominciato già in volo, ad ogni tappa del nostro aereo, in piena notte, frastornati dal rapido alternarsi dei fusi orari e da quegli orologi che correvano incontro al sole. A Karaci qualcuno doveva avere avvertito la gente; la folla, così, aveva invaso l'aeroporto: per vedere Gina. Una folla pakistana, silenziosa ma perentoria, decisa a non lasciarla partire se prima non si portava via un mucchietto di autografi. La stessa scena, più avanti nella notte, a Bombay, anche se l'equipaggio, forte dell'esperienza di prima, aveva tentato di prendere delle precauzioni. Inutili, però. Gina, svegliata ancora una volta di soprassalto, aveva dovuto scendere dalla scaletta, sorridere, firmare, stringere centinaia di mani. Pronta, di lì a poco, alla luce di un sole tropicale spuntato all'improvviso, a ripetere la stessa scena a Bangkok, mentre un gruppo di ballerine accennava per lei una specie di danza sacra, spargendo qua e là fiori e profumi (mancava solo l'elefante bianco). Ed ecco Hong Kong. L'aereo, allora, atterrava su una pista protesa verso il mare, corta e stretta. Quel giorno anche più corta perché la folla la serrava da ogni parte e la polizia inglese (si era ancora nel '64) riusciva a stento a trattenerla negli spazi stabiliti. Ovunque bandiere italiane e bandiere di carta gialla fitte di parole cinesi. Con la necessità, per Gina, nonostante la stanchezza del lungo volo, di lasciarsi portare di peso su una sedia al centro di un battaglione di fotografi, facile preda non solo di una fiumana di interviste, anche TV, ma di una processione di notabili piombati lì da ogni parte per stringerle la mano e farsi fotografare con lei. E si era solo agli inizi. Il programma prevedeva che la traversata da Kowloon, dov'era l'aeroporto sulla terraferma, a Hong Kong, che è su un'isola, si facesse su un motoscafo costretto, però, subito dopo a fare un giro molto lungo per permette