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Fu anche pittore e da scrittore vinse il «Viareggio» nel '71 «Odio le cose superficiali e mi piace andare in profondità»

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Sembrava quasi un personaggio del mito greco, da lui infinitamente amato, che avesse bevuto alla coppa dell'eterna giovinezza portata da Ganimede. Ed è giusto ricordarlo in questo modo anche ora che non è più con noi. Lo incontravi in uno dei suoi due studi nel cuore di Trastevere, a via Garibaldi e in vicolo dei Panieri, insieme al suo inseparabile amico e mecenate Carlo Ciccarelli e restavi incantato a sentirlo parlare degli ampi e felici orizzonti dell'arte decantati con la purezza di un bambino e con parole elegantissime e colme di passione. Contrariamente a tanti artisti rampanti e arroganti di oggi, Attardi apparteneva veramente alla schiera di quelli all'antica, sempre umile e disponibile come agli inizi del suo percorso creativo. E il suo è stato un itinerario artistico eccellente e raro per intensità e vastità di interessi, essendo Attardi pittore, scultore, incisore e scrittore appassionato (vincitore del Premio Viareggio per la narrativa nel 1971 con il romanzo «L'erede selvaggio»). Nato a Sori, vicino Genova, nel 1923 da genitori siciliani, già l'anno successivo si trasferisce con la famiglia a Palermo. Qui frequenta il liceo artistico e poi si iscrive alla facoltà di Architettura ma non può frequentarla a causa della guerra. Nel 1945, chiamato dall'amico Consagra, si trasferisce a Roma. «Il viaggio nella capitale - amava raccontare Attardi - è stato avventuroso e fatto di tanti mezzi di trasporto. Roma era una città piena di speranze, anche romantiche, ma i miei primi anni furono durissimi. Ero molto timido e per sopravvivere facevo lavoretti saltuari. Però il clima culturale era esaltante». Frequenta lo studio di Guttuso e già nel 1947 entra nel cuore del dibattito artistico del secondo dopoguerra partecipando alla fondazione (insieme alla Accardi, a Consagra, Dorazio, Guerrini, Perilli, Sanfilippo e Turcato) di «Forma 1», il primo gruppo astrattista italiano del secondo dopoguerra. Ma poco dopo Attardi avverte il richiamo impellente di un nuovo rapporto col reale e si allontana definitivamente dall'esperienza astratta, pur mantenendone alcuni approdi formali. Prende così corpo la sua ricerca figurativa epica, visionaria ed inquieta, tutta immersa in una poetica analisi dei misteri quotidiani dell'amore, dell'odio, della violenza, del sogno. Il suo forte impegno morale ed artistico è anche sancito nel 1961 dall'adesione al gruppo «Il pro e il contro» accanto a Calabria, Farulli, Gianquinto, Guccione e Vespignani. Come notò Carlo Ludovico Ragghianti nel 1976, cifra caratteristica di Attardi è sempre stata l'acuta «comprensione dei contrari e degli opposti» per cogliere la complessa rete di rapporti che lega ogni cosa all'altra, fino a trasformare la sua ansia di narrazione «in un planetario di apparizioni simultanee». In molti suoi quadri e sculture, sensuali corpi di donna, dalle forme perfettamente tornite e seducenti, diventano l'oggetto di desideri animaleschi, di violenze ma anche di sogni e vagheggiamenti. Col passare del tempo, la definizione di realista comincia ad andare stretta ad Attardi. «Io cerco - ci ha detto lui stesso - di esistenziare quello che dipingo, di dare all'osservatore il senso che sia condivisibile emotivamente quello che c'è nel quadro. Odio le cose superficiali e mi piace andare in profondità. In fondo la pittura è un'illusione e l'arte deve proporre una verità moltiplicata». Invitato più volte alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma, nel corso degli anni ad Attardi sono state dedicate grandi personali in Italia e all'estero. L'aspetto epico e mitico della sua ricerca, capace di dare immagine ad un uomo contemporaneo pronto a grandi sfide eppur memore del passato, resta soprattutto affidato alle sue sculture Fra i suoi maggiori impegni scultorei monumentali spiccano «Il vascello della rivoluzione» (1988) collocato presso il Palazzo dello Sport, a Roma, «Nelle Americhe» (1992), installato a Buenos Aires, l'«Ulisse» per Batt

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