di FULVIO STINCHELLI BASSA e grassa, i capelli avvolti a crocchia sulla nuca, Mamma Ulpia era rimasta ...
Senza boria, mettevano su un po' di roba, le cioccajje, e agghindate secondo uso e convenienza, si recavano al rinfresco per la cresima dei nipotini. «A' ma', venite qquà e fàteve n' goccetto... a la salute, porta bbene!». E la matrona, giusto un po' ritrosa, tendeva la mano deformata da migliaia di bucati, il mignolo alzato e il bicchiere scintillante: «Poco, però, m'ariccomanno... lo sai, fijjetto mio, che ciò la pressione...». Tinnire di bicchieri tra i convitati, bisbiglii di femmine e battutacce di maschi, poi, atteso e inevitabile, l'invito: «Dajje, Cla', ce la canti, sì o nnò?». E lui: «Che v'ho da canta'? Oggi, co' la voce, sto a sordi conti...». Ancora una pausa, tanto per tenere l'uditorio sulle spine, quindi: «E vva bbe', l'avete vinta voi... manna a' mae'!». Accompagnata dal piano, dalla chitarra o dal mandolino, insomma, da quel che c'era, la voce flautata si stendeva su quell'umanità in festa: «Casetta de Trastevere, casa de mamma mia...». Tutti in estasi, attorno a Mamma Ulpia, non si sentiva volare una mosca: «... pare ch'er monno stia cascann'appress'a tté». Questa scena, con Claudio Villa al centro, m'è tornata in mente nei giorni scorsi, mentre peregrinavo tra musei, librerie e bancarelle, alla ricerca di un libro, un dépliant, una foto, chessò, un "qualcosa" che valesse a ricordare la vita, l'opera e la voce, segnatamente quella, del maggior cantante nostro del secolo scorso. Macché, niente: vana ricerca... Mi disse, agli albori della mia modesta carriera, il mio primo capocronista: «Se fallisci in una ricerca, non star a raccontare perché e percome: alla gente non gliene può fregare di meno». Parole sante, ne faccio tesoro e procedo col "materiale" di cui dispongo: l'archivio di casa mia, il bugigattolo della mia memoria e il sapere degli esperti di mia stretta conoscenza e praticabilità. Primo fra questi ultimi il tassista che mi prende al Museo di Roma, in piazza Sant'Egidio, per riaccompagnarmi a casa. Giudicandolo, per età e atteggiamento, disponibile, gli faccio: «Lei se lo ricorda Claudio Villa, sa , quello di "Granada", di "Arrivederci, Roma", quello che cantava gli stornelli del Sor Capanna con una voce alla Beniamino Gigli? Sa, glielo domando, perché qui, fra tutti quelli che se lo dovrebbero ricordare, non se lo ricorda più nessuno...». Pronta la risposta, al pari del gesto con cui va a frugare nel cassetto porta-oggetti, da cui estrae un cd. «Vede, ho qui una selezione delle sue canzoni. Certo che lo ricordo, il nostro Claudio. Pensi che, da ragazzo, ero talmente tifoso suo che litigai con un amico. Lui, l'amico, sosteneva che era meglio Morandi. Roba da matti! E qui gliela dico tutta. Secondo me, Villa, che, poi, si chiamava Pica, lo sa?, era meglio perfino di Sinatra. Be', Sinatra aveva una voce ch'era un sospiro, ma cantava in inglese, un vantaggio da niente... Ma quando Claudio partiva con l'acuto, àpriti cielo, veniva ggiù la cuppola de San Pietro». Sorprendentemente, di lì a poco, il giudizio del tassinaro mi verrà confermato da uno stimato "vociologo" di RadioRai Tre, Enrico Stinchelli: «Possiamo tranquillamente affermare che l'avvento di Villa ebbe un carattere pionieristico. Fu il "cantore di grazia" che saldò l'Opera, la musica popolare dell'Ottocento, al canzonettismo dell'epoca nostra. Pur non possedendo la scuola dei grandi cantanti lirici cui si ispirava, penso a Schipa, Gigli e Tagliavini, ne aveva i numeri fondamentali, vale a dire l'intonazione, la musicalità e il fraseggio. Identica la tecnica antica che tutti praticavano, tanto i lirici citati quanto lui, il "canzonettaro": la tecnica del falsettone. Straordinario artista della voce, Villa, un genio sui generis. Del resto, lo stesso Pavarotti ne ha sempre detto un gran bene». Ora, personalmente, non posso dire di averlo conosciuto bene. Lo amavo, certo, da romano a romano, ma senza spingermi nel giudizio oltre