Reinterpreta e storpia se stesso. Ma piace sempre
E adesso è lì davanti, sul palco dell'Auditorium, più piccolo e curvo che mai ma in forma strepitosa, giacca bianca da serata di gala, nella seconda delle cinque date italiane del suo «Neverending Tour», (sabato scorso Pistoia, stasera Paestum e poi Foggia e Cosenza). È partito il quattro aprile da Reno, nel Nevada, ha girato mezza America e mezza Europa, e dal 12 settembre in poi si rimetterà on the road per spianare la mezza America mancante. Nel frattempo, il 29 agosto, uscirà il suo ennesimo album, «Modern Times», del quale non è dato sapere e del quale non ha accennato neanche una nota. Conoscendo il personaggio, non avevamo dubbi, le concessioni ai fan non sono scritte nel manuale d'istruzioni. Anzi, qualche cosa deve comunque essere successo, perché il concerto di ieri sera, come gli altri del tour, è stato un (corto) excursus sul Dylan degli anni '60, primi '70, una sorta di auto-Bignami ad esclusivo godimento di quelli che del menestrello di Duluth conoscono e riconoscono solo le pietre miliari, che lui comunque autodissacra rendendole molto spesso irriconoscibili. Tutto esaurito e platea adorante, ma d'altronde fra lui e il Padreterno molti non fanno distinzioni. Tra il pubblico anche il ministro per i Beni Culturali, Francesco Rutelli. Da Dylan neanche un saluto, e solo un semplice «thank you» alla fine e la presentazopne della band, ma anche questo fa parte del consueto copione, De Gregori docet. Tocca a «Maggie Farm» ad aprire il set, solo quindici pezzi. Pochi, anche se ognuno ha un peso specifico elevatissimo. Urli di gioia. Poi «The Times They Are A' Changin», una delle tante profezie inascoltate, uno degli inni della protesta pacifista, una canzone che ha quarant'anni suonati, e che suona adesso più attuale di allora, c'è o no un nuovo Vietnam? La droga, altro problema mai risolto, ed ecco «Mr. Tambourine Man», poesia sregolata ed esoterica, visionaria ed immaginifica. È un ritorno all'epoca del folk, del contestatissimo passaggio alla chitarra elettrica del Festival di Newport (1965) vissuto come un tradimento, «It'a Alright Ma'» e «Don't Think Twice, It's Alright» lo confermano. Il pubblico sottolinea con lunghi applausi canzoni che ormai sono svuotate delle pulsioni iniziali, ridotte all'osso, rimodellate come fossero fatte di pongo. Eppure ancora in grado di provocare emozioni come se Dio fosse venuto di persona a dire messa ed a leggere il Vangelo, opportunamente corretto per adeguarlo ai tempi. Organo ed armonica, la chitarra no, non c'è verso, le sue mani non hanno più l'elasticità necessaria. In compenso i suoi due chitarristi, Stu Kinball e Danny Freeman, si danno un gran da fare, colorando di blues sporco il cielo di Roma. Si va avanti con le pietre miliari, come nelle vecchie strade consolari romane: «Positively 4th Street», una dura «Highway 61 Revisited», una scarna ed altalenante «Forever Young», un recupero inaspettato, «Visions Of Joanna», una tirata «Summer Days», che chiude il set. Siamo sempre nel pieno degli anni '60, quando il futuro era ancora una radiosa aspettativa. Il menestrello declama, più che cantare biascica le parole, che diventano un impasto sonoro incomprensibile. Parole dentro le quali c'è la ruggine, quella che non dorme mai, e ce n'è anche nei suoni, che ti scavano dentro fino a corroderti, sono in pochi a saperla controllare. Dylan è uno di quelli. Manca «Blowin In The Wind», e l'attesa sarà vana. Sarebbe stata l'apoteosi dell'autocelebrazione. Solo due i bis consolatori per un pubblico che si spella le mani e che avrebbe gradito un'oretta in più di musica. Però, a sentire «Like A Rolling Stone», bluesy e sporca, ed