Visto dal critico
Nel «Silenzio» Dodo Fiori
UN VIAGGIO senza speranza nella droga. Lo percorre Tommaso che incontriamo il giorno in cui esce da una comunità di recupero. Lo accolgono un padre, severo magistrato, e una madre trepida, incapace però di assisterlo perché, per una sommessa crisi coniugale, soffre di forti depressioni. Il padre, invece, pensa di poter subito pianificare la vita del figlio. Gli fa scrivere da un altro la tesi di laurea in giurisprudenza e, nel frattempo, lo fa accogliere come praticante nello studio di un suo amico avvocato. Tommaso, in apparenza, si lascia guidare, in realtà, di nascosto e con molta cautela, continua a drogarsi, frequentando i suoi soliti spacciatori e altri drogati. Non arrivando mai più né a risollevarsi né a vincersi, così, alla vigilia del suo ritorno nella comunità da cui era appena emerso, soggiacerà a un eccesso di droghe e la madre, andando a svegliarlo, lo troverà morto nel suo letto. Ci ha raccontato questo viaggio Dodo Fiori, esordendo nel lungometraggio dopo però alcune fortunate esperienze nel settore dei cortometraggi e dei video musicali. Con rigore non ha concesso nulla allo spettacolo. Attorno al personaggio, come ha annunciato dal titolo, ha lasciato spazi solo al "silenzio", soffermandosi in modo altrettanto silenzioso sul percorso di quel drogato senza salvezza che non si ribella mai ma che, nonostante questo, non aderisce in nessun modo, coscientemente, a tutti i tentativi che, soprattutto da parte del padre, vengono messi in opera per liberarlo dal suo vizio mortale. La narrazione procede per stacchi, divisi, intenzionalmente, da immagini nere, con l'inserimento, tra quelle che si riferiscono a Tommaso, di altre pagine brevemente dedicate a un interrogatorio serrato che il padre magistrato fa subire in carcere a una donna sospettata di aver favorito la morte della propria madre alcolizzata. Un contrasto simbolico, che allude e sottolinea, precisando sempre di più il carattere di quel padre che, dopo la morte del figlio, non saprà più né giudicare né condannare. Fiori, nonostante l'esordio, mostra in ogni pagina di essersi già imposto un linguaggio: asciutto e spesso con la forza intima del non detto. Coadiuvato da tecniche provvedute (una fotografia aspra e risentita, delle musiche quasi con i ritmi di un cuore in tumulto) e da una recitazione in ognuno molto salda. Cito però soprattutto le brevi apparizioni della ragazza inquisita. Si chiama Maria Jacopini. Ha una faccia che lascia un segno.