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Cannes ha ucciso il cinema dei sogni

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Promossi Loach, Inarritu, Dumont e la devastante realtà di oggi

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Delusione per il troppo annunciato «Volver» di Pedro Almodovar, che certo si aspettava la Palma d'Oro. E delusione per i due italiani in concorso, Moretti e Sorrentino, troppo legati, evidentemente, ai problemi interni del loro paese. Il primo da un punto di vista politico, il secondo da uno sguardo che caratterizza personaggi di una commedia evocativa a tratti di Eduardo e a tratti di Totò. Nulla di male in entrambi i casi, ma le trame non rispecchiano il feeling di questa edizione. Che non s'identifica nemmeno nelle vicende passionali e sentimentali delle «chicas de la Mancha» di Almodovar. Il rigoroso settantenne Ken Loach, inglese critico, che sta sempre dalla parte dei più poveri, invece ha messo d'accordo all'unanimità i nove membri della giuria capitanati dal regista asiatico Wong Kar-wai, che non si è lasciato convincere neppure dall'amaro dispiacere della divina Monica Bellucci, unica giurata italiana a sostenere i nostri registi. «Su Paolo Sorrentino, che non è stato premiato, ci ho lasciato il cuore», ha dichiarato la Bellucci. E Moretti? «Sì, è stato apprezzato», ha risposto l'attrice senza dilungarsi troppo su ulteriori giudizi riguardo a «Il Caimano». Ma intanto, se Moretti attacca Berlusconi nel suo film, se Sorrentino esalta lo squallore di un usuraio meridionale e persino se Almodovar fa emergere il grande mistero della bellezza materna, i direttori artistici del festival di Cannes 2006 rimangono ugualmente freddi e distaccati. A riscaldarli sono le scene violente di sesso e di guerra. Il desiderio di far scricchiolare, almeno virtualmente, i grandi imperialismi occidentali. Quello inglese raccontato da Ken Loach in «The Wind that Shakes the Barley» (Palma d'Oro): storia di due fratelli irlandesi che combattono negli Anni Venti contro l'Inghilterra per l'indipendenza dell'Irlanda e poi nella successiva guerra civile. «I danni dell'mperialismo si ripetono anche oggi — ha detto Loach —. Anche per la Gran Bretagna è giunto il momento di dire la verità sul suo passato e sul suo presente». Pure Bruno Dumont con «Flandres» (Gran Premio della Giuria) si confronta con l'orrore delle guerre: dei rozzi contadini lasciano la via noiosa delle Fiandre per indossare la divisa militare, con la quale compiono e subiscono violenze inaudite, fino a liberarsi in un inguardabile stupro collettivo. Mentre Alejandro Gonzales Inarritu con «Babel» (Premio alla regia) fa «l'analisi di un impero come quello degli Stati Uniti che vede tutti gli altri come nemici». E per continuare, ci sono gli attori vincitori, quelli di «Indigenes» di Bouchareb, interpreti appassionati di un film che è una sorta di risarcimento da parte dell'Europa e della Francia verso i soldati marocchini che versarono il loro sangue nel 1944 liberando una patria non loro. Così, il festival di Cannes ha messo al bando sogni e sentimentalismi per osannare la dura quotidianità di un mondo devastato da guerre, violenze e oppressioni. Quasi un rimprovero, o meglio una bocciatura, per quegli autori che continuano ad ignorare la realtà, quella di oggi e che appartiene al mondo intero, non solo ai singoli paesi.

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