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«Il lieto fine? Nei miei romanzi è obbligatorio»

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È già un successo «Rosso corallo», nuovo libro di Sveva Casati Modignani alias Bice Cairati

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È la «ricetta» del successo di Sveva Casati Modignani, nom de plume dietro il quale si sono celati Bice Cairati e Nullo Cantaroni, una coppia affiatata nella vita professionale e molto unita nella vita privata fino alla scomparsa di Nullo nel 2004. Stessi ingredienti per 18 romanzi, tradotti in ben diciassette Paesi raggiungendo quota dieci milioni di copie vendute. La stessa fortuna toccherà a «Rosso corallo» (Sperling&Kupfer) uscito in qusti giorni: è la storia di una manager dagli anni Sessanta ai Novanta, ispirata da Ada Grecchi, nota professionista milanese. Sullo sfondo del percorso professionale di Liliana Corti, la protagonista, ci sono le lotte sindacali, il '68, il terrorismo, la moda, il rampantismo e tangentopoli. Insomma, il solito romanzo corale, dal solido impianto narrativo, che commuove, fa riflettere e soprattutto sognare con il suo immancabile lieto fine. Signora Cairati, che cosa le dà scrivere? «Scrivere mi piace, la scrittura è terapeutica, è bellissima, mi diverte, mi intriga, mi aiuta a vivere, ma soprattutto, non so fare altro», afferma con sincerità e grande serenità la scrittrice, classica signora milanese, con il fascino delle donne di una volta. Da «Anna dagli occhi verdi» a «Rosso corallo»: quanto c'è di autobiografico nelle sue storie? «In ogni romanzo c'è una parte di me e della mia vita, anche se poi i personaggi pensano, parlano e agiscono in modo diverso da me. Le storie, invece, sono quelle che attingo dalla vita». E c'è sempre il lieto fine... «Per fortuna! Io mi arrabbierei moltissimo se non ci fosse. Anche quando vedo un film e il finale è tragico ci resto malissimo, mi arrabbio. Per questo nelle storie che io racconto il lieto fine è obbligatorio, ne ho bisogno io». Crede che i lettori abbiano la stessa esigenza? «Devo dirle, quello di cui hanno bisogno i lettori io proprio non lo so, ma io so di cosa ho bisogno io. Alla fine queste storie io le scrivo per me, me le racconto, mi racconto una storia che vorrei mi fosse raccontata. Poi ho la fortuna di avere un editore che queste storie pubblica e, ulteriore fortuna, ci sono dei lettori che queste storie amano. Tutto arriva di conseguenza, ma il punto di partenza è la necessità di raccontare storie a me stessa, perché devo intrattenermi, devo divertirmi. È la curiosità poi che mi spinge ad andare avanti perché, a parte l'idea di partenza e due o tre personaggi portanti della storia, io non so mai come andrà a finire e sono curiosa di saperlo...». Un genere unico e inimitabile nel panorama della narrativa italiana. C'è ancora chi la bolla come scrittura di serie B, romanzetti rosa per casalinghe di Voghera? «Da quando il prof. Vittorio Spinazzola, docente di letteratura contemporanea all'Università di Milano, ha dato una specie di imprimatur alle mie storie, hanno fortunatamente smesso di considerarla letteratura rosa». È il primo romanzo che scrive da sola? «No - dice con risolutezza - io ho scritto insieme a mio marito». Come dire, nessuna differenza da quando lui non c'è? «Mio marito è stato malato 20 anni, quindi lui non scriveva, e come c'era c'è. Mi creda, c'è ancora e qualche volta mi da anche fastidio, ma c'è. Sono sempre romanzi scritti a 4 mani, ne sono fermamente convinta, lo sento è così. Per me è come quando era malato: io salivo in camera da lui e gli leggevo i capitoli. Qualche volta scuoteva la testa e senza parlare mi faceva capire che non andava bene. Allora lo riscrivevo, lo stravolgevo tornavo da lui glielo leggevo e qualche volta gli scendeva una lacrima e sussurrava "brava ragazza, mi hai commosso"». Perché ha smesso di fare la giornalista? «Mi andava stretto il mondo del giornalismo, ero brava e quando sei brava non te lo perdonano. Io non sono competitiva e così ho deciso di lasciare quel mondo e ho cominciato a scrivere il primo romanzo nel 1981 e da allora ho sempre continuato anche perché non devo rendere conto a nessun caporedattore, direttore... solo ai lettori, relativamente». Loro non la

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