A Barcellona il freddo volo delle «aquile»
C'è tutta la storia degli Eagles, in quel verso di «Hotel California», che dopo trent'anni ancora spinge fans ed esorcisti a chiedersi se quello sia un messaggio satanico o - o in ogni caso - una maledizione rock'n'roll. Dopo aver creato una sorta di ideale colonna sonora per la vita dorata del West contemporaneo, dove le trasgressioni della Hollywood liberal discendono direttamente dall'utopia alternativa dei vecchi hippies, la premiata ditta guidata da Don Henley e Glenn Frey è ancora qui, alle prese con quello che, con dichiarata ironia, hanno battezzato il "Tour d'addio numero uno". Avevano provato a sciogliersi, nel 1981, dopo troppe tempeste egotiche fra i due leader. Frey disse allora: «ci riuniremo quando l'inferno congelerà». Ma anche quella battuta («Hell freezes over») divenne poi nientemeno che lo slogan di un primo giro di concerti di riappacificazione, più di dieci anni fa. I critici lo ribattezzarono «il tour della cupidigia», per via del costo esorbitante dei biglietti. E le cose, ancora oggi, non sono cambiate: a Hong Kong, ad esempio, un ingresso vip per lo show era arrivato a costare più di 2700 dollari. Solo nel 2005, gli Eagles erano arrivati ad incassare qualcosa come 63,5 milioni di biglietti verdi. «Non ci sentiremo in colpa per questo, perchè il nostro è uno spettacolo di prima classe, dello stesso livello di Paul McCartney o Elton John», gongolano loro. Così, dopo aver battuto le piste di tre quarti del globo, eccoli in Europa: al Palalottomatica di Roma saranno sabato prossimo (ticket che sfiorano anche i cento euro, ma è tutta la carovana del rock ad essere diventata esosa), il 29 sbarco a Verona. Per il vernissage sul Vecchio Continente un bonus lo regala il sole che si tuffa - incandescente e spudorato - dietro la collina del Montjuic. I quindicimila catalani che affollano il Palau Sant Jordi hanno anche loro fame di leggenda: con un po' d'immaginazione là sotto non c'è il Mediterraneo, ma il Pacifico di Big Sur, l'approdo a una meraviglia dopo un deserto che brucia l'anima. Due o tre generazioni in fila, ancora all'inseguimento di un Eldorado pop: quello che, negli anni Settanta, era parso un sogno di vita "altra" e che poi è servito solo per riempire le tasche degli Eagles o l'I-pod di Hillary Clinton. Sul palco si presentano in dodici: due tastieristi, una sezione fiati a quattro, un percussionista aggiunto (Scott Crago) che rimpiazza Henley ogni volta che questi si alza dalla batteria, e il brillante chitarrista Steuart Smith, a tutti gli effetti una sorta di quinto Eagle ufficioso: sostituisce da anni Don Felder, che aveva chiuso la sua storia nella band con una battaglia legale per una montagna di presunti diritti d'autore non riconosciuti. Poi, naturalmente, i quattro titolari, con Glenn Frey a gestire la direzione musicale della squadra, Don Henley a dispensare i suoi talenti di multistrumentista e cantante sopraffino, il bassista Timothy Schmit a fare il gregario di lusso, e quella specie di Pippo in carne ed ossa che è Joe Walsh: ex alcolista in servizio permanente, oggi solo un virtuoso della sei corde rock con il vizio della composizione: si limitasse a suonare i classici degli Eagles, sarebbe perfetto. Ma gran parte del sottofinale del concerto è dedicato al suo repertorio di firma. Ed è una grana: perché allunga a dismisura i tempi della serata (quasi tre ore di esibizione totale) deviandola dal suo corso originario. Che é o dovrebbe essere, per tutti quelli che vi assistono, un'immersione nell'epopea della West Coast. Ma il punto è proprio questo: gli Eagles dispensano il loro formidabile catalogo con nonchalance, e cercano di superare con la loro inappuntabile professionalità anche i problemi di acustica del Sant Jordi. Macinano uno dietro l'altro, in apertura, i successi che hanno fatto vendere loro più di 120 milioni di copie di dischi (il "Greatest Hits 1971-75" è l'album più venduto di tutti i tempi negli Usa): però quasi mai scatta il brivido, la scint