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In un libro la mappa di miserie e meraviglie del Belpaese: dal Vajont ai trionfi di Fellini

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Italiani, magnifici smemorati

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Sono luoghi «privati» nel suo personale percorso. Ma anche luoghi comuni del cosiddetto «immaginario collettivo». E della realtà di tutti noi. Tappe della nostra storia, pezze dell'invisibile «patchwork» che compone la strada scelta da una comunità di uomini. Lo sono, per noi italiani, la diga del Vajont scavalcata da una feroce e cieca montagna d'acqua che ha spazzato via in pochi minuti case, bestie e persone; piazza Fontana a Milano, che ospitava la banca scelta per la bomba che inaugurò la destabilizzante «strategia della tensione»; l'Idroscalo sul lido di Ostia, simbolo d'emarginazione e d'abbandono che solo conosce la verità sulla crudele, solitaria fine del poeta Pierpaolo Pasolini; l'asfalto di via Fani a Roma, che accolse il sangue degli uomini di scorta al presidente della Dc Aldo Moro e fu «testimone» del suo rapimento; il pozzo profondo e oscuro di Vermicino che rapì il povero Alfredino Rampi e insieme la nostra «verginità» di ingenui telespettatori, trasformando l'educato e pudico intrattenimento degli anni precedenti in angosciante stillicidio di cronaca; il Pio Albergo Trivulzio, sempre nella «Milano da bere», da cui scaturì quel terremoto che, in perfetto stile leopardesco, sembrava dover cambiare tutto e non ha cambiato quasi nulla, come dimostrano gli scandali degli ultimi anni, dalla Parmalat alla Juventus; e così via, avanti o indietro tutta con Capaci, Cogne, Arcore e, infine, «quadro» a se stante nella sfilata di acquerelli dipinti da un grande inviato della carta stampata (che poi è un cronista senza confini), la città del cinema, Cinecittà. La scelta di questi «punti» di vista da cui osservare un Paese e coglierne l'essenza è parziale e però «non del tutto arbitraria». Potevano essere di più. Poteva bastarne uno solo. Ma Pino Corrias, ex giornalista della «Stampa» e oggi dirigente Rai, in «Luoghi comuni» (Rizzoli, 256 pagine, 15 euro) ha voluto concentrare la sua attenzione su alcuni. Importanti. Basici. Emblematici. Si parte da «tutti quei morti, 1910 vittime in 4 minuti, scorticati dal vento, annegati nell'acqua, soffocati dal fango» alle 22,39 di mercoledì 9 ottobre 1963 nella «bella valle del Vajont» e si arriva alla fabbrica del cinema sorta durante il Ventennio lungo la «Hollywood sul Tevere». E, sotto i pennelli caricati ad inchiostro di Corrias, appare soprattutto il ritratto dello studio numero Cinque, «teatro dei teatri dove il grande Fellini veniva a sognare, camminando con le mani in tasca, il paltò, il cappello, la sciarpa rossa, bisbigliando biglietti di parole che diventavano trame di altri sogni e disincanti, memoria e rivelazioni di quel grande cinema di anni Cinquanta e Sessanta che avrebbe cambiato per sempre l'Italia raccontando l'Italia agli italiani». Un ritratto impietoso, «caldo» e appassionato, molto più di una cronaca e senza la fantasia del romanzo. Perché, purtroppo, è tutto vero. Vere le tragedie, le omissioni, le complicità, «vere» le false verità raccontate per difendersi da un'accusa atroce, come quella di aver massacrato il proprio figlioletto. Ogni popolo ha i suoi pregi e i suoi difetti. E chi è italiano, come noi, conosce bene quelli degli abitanti del Belpaese, diversi e simili dalla Val D'Aosta alla Sicilia, dall'Alto Adige al «tacco» pugliese. Ma tutti sanno che il difetto peggiore, quello che può cambiare (o non cambiare quando invece è necessario) la storia di un popolo è l'assenza di memoria. Perderla significa spesso ripercorrere strade sbagliate, rifare gli stessi errori. Però, come spiega lo stesso autore nell'introduzione al suo bel libro, «il tempo passa, confonde e dimentica. La scrittura ferma il tempo, mette la memoria in riga, i luoghi in pagina». Forse è questo il senso profondo della «fatica» di Corrias. Lui ne spiega la genesi «come un ritorno al nostro recentissimo passato e alle sue conseguenze che questa strana costellazione di

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