Rossellini, l'avventuriero di genio
Gian Luigi Rondi ricorda il grande regista di «Roma città aperta» a cent'anni dalla nascita
L'ho conosciuto bene, così oggi posso ricordare la sua grandezza insieme con le sue contraddizioni. Un genio, ma anche insofferente delle regole. Un donnaiolo sempre infedele, ma anche un ottimo padre di famiglia, con tenerezze spesso quasi «materne» per i suoi figli. Opportunista, ma molto spesso sincero. Generoso (specie con i soldi degli altri) e pronto a dare a tutti, a volte senza chiedere nulla in cambio. Cattolico, anzi democristiano, con rispettosi baciamano a preti e frati, ma anche laico e trasgressivo, e non solo nella vita privata. Inventore di un neoralismo che nulla voleva concedere all'immagine filmica. Ma conscio che il suo lavoro non era in linea con le grammatiche cinematografiche e con le esigenze di uno stile. Indubbiamente un caposcuola, con molti seguaci in tutto il mondo. Anche se a volte non troppo dissimile, sul piano artistico, da questo o quel venditore di fumo. Poeta ma, per pigrizia o per fretta, capace anche di qualche sciatteria. Fedele al neoralismo fino al suo ultimo film («Il Messia»), ma responsabile di una filmografia in cui non si imponevano solo dei capolavori. Il primo autore di cinema in grado di inventarsi un approccio addirittura geniale con la televisione («La presa del potere di Luigi XIV»). Pronto subito dopo, però (pur teorizzando il contrario), a ridurre la televisione a mero documento, in equilibrio stentato fra la didattica e la storia. Con il dubbio che quel nuovo mezzo tendesse soprattutto a piegarlo alle sue esigenze personali, produttive per un verso, alimentari per un altro. Mi sono chiesto per anni, senza riuscire a rispondermi, le ragioni di queste contraddizioni. Gli sono stato vicino, anche come amico, seguendolo dal 1948. Nello stesso tempo, come critico, ho seguito, spesso con ammirazione, la sua carriera di autore che, pur con alti e bassi, ne ha fatto una delle figure più rappresentative dell'intera storia del cinema italiano. Sia nel primo dopoguerra (con la trilogia di «Roma città aperta», «Paisà», «Germania anno zero»), sia a cavallo degli anni Cinquanta, con i film «religiosi» («Stromboli», «Francesco, giullare di Dio»). Ma pure con «Europa 51» e «Viaggio in Italia» in cui avviava ricerche anche formali (lui così contrario alla forma) che avrebbero rinnovato ancora una volta il linguaggio stesso del cinema. Il primo incontro a Parigi, quando un'organizzazione francese, per riannodare i rapporti culturali fra l'Italia e la Francia, mi chiese una conferenza sul cinema italiano. Scelsi, come tema, proprio Rossellini, con il risultato di sentirmi telefonare per vedersi (era a Parigi anche lui). Avendo, dal festival di Locarno, espresso qualche rilievo qui su Il Tempo sulla fattura di «Germania anno zero», mi sentii subito dire: «Voi critici, cresciuti alla scuola di Benedetto Croce, ancora non vi rendete conto che oggi il cinema non si può più fare preoccupandosi della forma. Con i nostri film, in fondo, stiamo facendo un discorso di condoglianza a delle vedove e a degli orfani usciti da quella spaventosa catastrofe che tutti abbiamo vissuto. E ti immagini uno che va in casa di gente in lutto e anziché preoccuparsi della solidarietà che deve esprimere, si mette a posto cravatta e bada a ravviarsi bene i capelli prima di entrare? Quello che conta, adesso, è dire le cose così come sono e per quello che sono, togliendo tutti gli orpelli - da qui le mie immagini quasi nude - e stando attenti a non mettersi in testa la corona del Poeta per dire: "Adesso arrivo io e canto". Altro che cantare! Il dovere del cinema, oggi, è di dire a voce bassa solo ciò che il pubblico vuol sentirsi dire su quello che ha visto e patito... Una lezione sul neorealismo che, almeno per certi suoi film, da critico non ho più dimenticato. Anche se, come amico, non nei miei confronti, ma con altri, riuscì a darmi, più di una volta una delusione dietro l'altra. Nei confronti di Ingrid Bergman, ad esempio, venuta in Italia con grande entusiasmo (per lui ma anche per il suo cinema), decisa, anche a costo di lasciare Hollywood,