Il 17 maggio '74 la strage di Dublino. Nell'81 la morte di Sands
Come una carezza, dapprima, poi come uno schiaffo che brucia la pelle, e l'anima. Perché in poche centinaia di metri il cacciatore di simboli può decifrare un enigma fatto di poesia e sangue, di meraviglia e angoscia. Ecco, a sinistra, la statua di James Joyce, altezzosamente incurante dei turisti che vogliono la foto accanto all'idolo letterario nazionale: in pochi avranno letto l"Ulisse", nessuno "Finnegan's Wake", ma l'importante è darsi un tono. E sull'altro lato, più oltre, l'insegna del negozio di apparecchi acustici «Bonavox»: questo sì un segreto luogo di culto per i fans del rock, da quando un briccone lentigginoso di nome Paul Hewson decise di trarne ispirazione per ribattezzarsi Bono, e guidare gli U2 alla conquista del mondo, con gran beneficio per l'ente del turismo dell'Eire e per il rilancio della municipalità dublinese. La tragedia incombe - muta e assordante - in fondo alla strada, dove una stele elenca i nomi delle vittime di quel 17 maggio di 32 anni fa. La Piazza Fontana degli irlandesi. In quel maledetto venerdì, alle cinque e mezzo di pomeriggio, in tanti, troppi, si erano mossi a piedi: c'era lo sciopero dei bus. La prima autobomba esplose nella strada parallela, Parnell Street. Trenta secondi dopo fu la volta di Talbot, e un minuto più tardi a restare sventrata fu South Leinster Street, vicino al Trinity College. Ricorda il testimone oculare John Casey: «In poco più di un minuto centinaia di persone fuggivano urlando in ogni direzione. L'edicola accanto alla quale mi trovavo fu disintegrata, e quello strillone adolescente che vendeva i giornali semplicemente sparì dalla mia vista in una nuvola di polvere». Poche ore più tardi, un'altra auto imbottita di esplosivo saltò in aria nella cittadina di Monaghan, al confine con l'Ulster: si dice per coprire la fuga degli attentatori che tornavano al Nord. Lassù morirono in sette, a Dublino in 27. Più di 250 persone riportarono ferite. I corpi di Jacqueline O'Brien, di un anno e mezzo, e della sorellina Anne-Marie, cinque mesi, restarono a lungo all'obitorio senza che nessuno li cercasse. Si scoprì poi che i genitori erano morti con loro a Talbot Street. Dove anche la ventenne Colette Doherty, incinta di nove mesi, perse la vita assieme alla bimba che portava in grembo: tempo dopo, a quel feto fu riconosciuto lo status di vittima, grazie all'articolo 40 della Costituzione irlandese che sancisce il diritto a nascere. E un italiano, il 37enne Antonio Magliocco, originario del Frusinate, non fece in tempo a raggiungere il ristorante del fratello Mario. Nel 2004 il figlio Tommasino è tornato qui per lasciare un fiore sotto questa pietra. Con gli altri parenti dei morti, ha chiesto giustizia, si è rivolto al Parlamento Europeo perchè un inchiesta illuminasse definitivamente il cono d'ombra di quelle stragi. Dove insabbiamenti, depistaggi, reperti archiviati e poi misteriosamente spariti nel nulla hanno portato a una certezza senza prove: che ad assistere e finanziare gli estremisti protestanti dell'Ulster Volunteer Force (che nel '93, per replicare a un'inchiesta tv, dichiararono di aver progettato e realizzato da soli quegli attentati) vi fossero i servizi segreti inglesi. Con agenti infiltrati nelle forze paramilitari lealiste, per esportare la guerriglia dalla contea fedele alla Corona inglese fin nella Repubblica d'Irlanda e far tramontare ogni velleità di una riunificazione dell'isola sotto la bandiera dell'Eire. Indagini giornalistiche e private arrivarono a un passo dal dimostrare la collusione degli 007 in quei massacri, e anche il ricatto subìto dal governo di Dublino, che aveva barattato la non-cooperazione nell'inchiesta con il silenzio sulle coperture ai militanti dell'Ira, cattolici e repubblicani. Il dossier preparato dall'ex giudice della Corte Suprema Henry Barron non trovò forza documentale, limitandosi a «non escludere» l'intervento dell'MI5 e dell'MI6 nel venerdì di sangue del 1974: che resta una c