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La partita si riaprì quando l'Eni tentò di competere con le «sette sorelle»

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Questa è la prima conclusione che si può trarre dalle pagine di Benito Li Vigni, già alto dirigente dell'Eni e stretto collaboratore del presidente, Enrico Mattei («In nome del petrolio - Da Mussolini a Berlusconi gli affari italiani in Iraq», Editori Riuniti, pagg. 380, 20 Euro). Libro di viva attualità - dopo il nuovo eccidio di militari italiani a Nassiriya - e fortemente critico sulla politica degli Stati Uniti «Super flumina Babilionae», con riserve accertate di greggio per 214 miliardi di barili, seconde soltanto a quelle dell'Arabia Saudita. Tutta la storia dell'Iraq (una invenzione della diplomazia britannica) è intrisa di «oro nero», da quando il trono di Baghdad venne assegnato all'hascemita feysal, che aveva vissuto con Lawrence d'Arabia la «rivolta nel deserto». Ed eccoci all'Italia. Si parte da lontano. Alla Conferenza di Monaco (29 settembre 1938), Mussolini confidò a Hitler che se le sanzioni contro l'Italia - dopo l'attacco all'Etiopia - fossero state estese ai rifornimenti petroliferi, le armate italiane sarebbero state costrette a battere in ritirata. Quello che Mussolini non disse è che, con questa spada di Damocle sulla testa, dovette rinunciare a qualsiasi concessione in Iraq, nonostante la promettente iniziativa dell'Agip, ente costituito nel 1926 «allo scopo di promuovere le ricerche di combustibili liquidi in Italia o in concessioni ottenute altrove». In Iraq, si era realizzata questa seconda condizione, nonostante l'ostilità della «Iraq Petrolem Company» e quindi della Gran Bretagna. Quando, nel 1935, aveva assunto praticamente il controllo della «Mosul oil fields» e quindi la possibilità di sfruttare una promettente concessione, l'Agip venne bloccata dal ricatto inglese. Per dare una idea della posta in gioco, basti dire che si poteva ragionevolmente sperare in una produzione annua di due milioni di tonnellate, mentre Iraq e Iran, congiuntamente, ne producevano 15 milioni e i campi petroliferi romeni di Ploesti raggiungevano a stento 6 milioni e mezzo di tonnellate. L'Italia, «assediata», impegnata militarmente in Africa Orientale, con la flotta inglese concentrata nel Mediterraneo, raccoglieva oro con le vere nuziali, rame delle batterie da cucina, metalli di scarto: finanziariamente il Paese era esposto oltre ogni limite. In questa situazione, l'allora presidente dell'Agip, Umberto Puppini, venne convocato da Mussolini a Palazzo Venezia: gli fu ordinato «per il bene della Patria» di abbandonare la partita sul Tigri e Eufrate, lasciando campo libero all'«Iraq Petroleum Company». Era la fine del grande sogno italiano di sfruttare in proprio una concessione petrolifera nel Medio Oriente. Paradossalmente, l'Iraq, insofferente della dominazione inglese, scese in campo a fianco dell'Asse nel maggio 1941: gli aerei italiani e tedeschi, atterrati per dare man forte agli iracheni, si trovarono in difficoltà...a causa della mancanza di benzina! La partita parve riaprirsi con Enrico Mattei, fautore di una spregiudicata politica petrolifera volta a rompere il monopolio delle «sette sorelle», mettendo sullo stesso piano («fifty-fifty») paese produttore e stato consumatore. Come era avvenuto con l'Egitto, l'Iran, il Marocco, l'avance dell'Eni fu recepita anche in Iraq, che stava appena uscendo dal trauma rappresentato dal colpo di Stato antirealista del 14 luglio 1958. Sulla scena, era apparso il primo presidente-militare, Abdel Karim Kassem: ce ne sarebbero stati altri quattro, cioè Abdul Salem Aref, Abdul Rahman Aref, Hassan al Bakr, Saddam Hussein, tutti, in egual misura, con i dati sulla produzione petrolifera bene in vista, per realizzare i rispettivi, costosi progetti. In quel torno di tempo, in un rapporto confidenziale del «Foreign Office» britannico, si leggeva: «Non è una esagerazione asserire che il successo della politica di Mattei rappresenta la distruzione del libero sistema petrolifero di tutto il mondo. In questa situazione, le compagnie petrolifer

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