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Alle radici del rock

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Springsteen lo intona con splendida sfrontatezza, trasformando in un carnevale l'apocalisse minore che da duecento anni incombe sui destini degli emarginati. Quelli che, pietra su pietra, strada su strada, hanno forgiato quel prototipo di democrazia incompleta che è l'America. Accompagnato da una gioiosa macchina da guerra in cui le armi sono contrabbassi, banjo, tube, tromboni, chitarre steel, voci gospel, fisarmoniche, il Boss è tornato a Dublino per inaugurare, proprio come un anno fa (quando l'avventura era la solitudine sul palco), la sua nuova tournée: quella che proporrà (a Milano suonerà venerdì 12) le canzoni delle «Seeger Sessions». Dal catalogo della musica popolare Usa (da lui rispolverato e ricontestualizzato in un'operazione tutt'altro che filologica) il 56enne rocker ha estratto materiale dal fascino antico, ma che nelle sue mani si rivela di incendiaria attualità. Come quando, poco dopo la metà del concerto al Point Depot, Springsteen attacca un pezzo scritto da Blind Alfred Reed nel 1929, un mese dopo quel crollo di Wall Street che fu causa e preludio della Grande Depressione: e davanti a un pubblico incredulo trasforma quel reperto folk in uno schiaffo alla Casa Bianca, perché, spiega, «non avrei mai creduto di vedere una città del mio Paese in una simile situazione». E parla di New Orleans, dove ha suonato lo scorso weekend, e immagina l'uragano, l'epopea di una tragedia in corso. Grazie a Bruce, e ai 17 strepitosi musicisti attorno a lui, questa "How can a poor man stand such times and live" (che non compare sul nuovo cd) si squarcia in un rock secco e impetuoso, si arrampica nel gospel, si inoltra nel soul. Lui ne ha riscritto parte del testo, raccontando di quei "corpi che galleggiano nel canale", di "famiglie sfollate dal Texas a Baltimora, mentre io non avrò più una casa in questo mondo" e intanto il Politico arriva, "fa un discorsetto, dice di essere vicino alle vittime, e poi va a farsene una passeggiata". E tutto questo urlato con la voce assetata della protesta, e con la forza solenne di chi sa di essere dalla parte della ragione e della speranza. Lui imbraccia la chitarra acustica come se pesasse una tonnellata, come provato dallo sforzo e dall'onore di sorreggere la responsabilità delle memorie, anche in questo un simbolico "working class hero". La Seeger Session Band (formidabili il batterista Larry Eagle, il tastierista Charles Giordano, il violinista Sam Barfield, e gli altri incondizionatamente all'altezza del compito) trasfigura la natura di quei pezzi immergendoli nel bluegrass, nel country & western, nel dixieland, nell'honky tonk, nel rock & roll, e in quel liberare una musica destinata agli archivi ci vedi una gioia sovversiva, una felice volontà di togliere il bavaglio a voci scomode, una straripante energia per spezzare le catene di quanti, per due secoli, si sono permessi di sollevare obiezioni all'establishment. Arte povera ma vincente, una pirotecnica fanfara per strumenti da cortile, presentata senza altra scenografia che qualche effetto di luce a simulare, sullo sfondo, un tramonto rosso sangue nel deserto o una luna inquieta nella prateria. C'è molto Sud, in questo fiume di musica, come se l'omaggio a New Orleans fosse anche subliminale. Con quelle venature di stili cajun, zydeco che fanno annusare l'aria profumata di una città che veniva chiamata, prima del disastro, la "Big Easy", il luogo in cui è facile vivere. E poi gli spirituals, certo, i cori dei neri che tentano di sollevarsi dalla schiavitù, il Mississippi che confluisce nel Giordano. "Keep your eyes on the prize", maestosa nella sua luce di fede, come quando veniva intonata dagli studenti incarcerati nel '56 per la rivendicazione dei diritti civili. O "Jacob's ladder", la Parola e la frenesia, una potente promessa dal cielo. Il pubblico, che forse si aspettava un concerto sussiegoso (lo scorso an

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