di GIAN LUIGI RONDI IL CANE GIALLO DELLA MONGOLIA, di Byambasuren Davaa, con Urjindor Batchuluun, Buyandula ...
Per iniziativa di quella regista mongola con studi in Germania, Byambasuren Davaa, che ci aveva già tanto convinti (e commossi) con la sua opera prima «La storia del cammello che piange». Questa volta non siamo nel deserto dei Gobi, ma in una zona verde, tutta pascoli, dove sosta per l'estate una popolazione composta prevalentemente da nomadi. Per restituircene abitudini, miti e costumi, la regista ci ha messo di fronte a una vera famiglia mongola, papà, mamma, tre figli piccoli, che si prepara a levare le tende perché, con l'avvicinarsi dell'inverno, si sposteranno verso plaghe più pianeggianti. Per un verso, così, ci dice di quella loro vita, con lo stesso approccio documentario cui aveva fatto ricorso nell'altro film, per un altro verso fa loro «recitare» come dal vero un episodio che, di sfondo, ha una favola lì a tutti nota, quella di un cane che salva un bambino. Uno dei tre figli, così, scopre, nascosto in una grotta, un cagnolino, gli si affeziona e lo porta nella tenda dove vive con i suoi. Il padre, però, non lo accoglie con lo stesso affetto perché, spiega, la zona è piena di cani randagi portati spesso a vivere e addirittura ad accoppiarsi con i lupi, con il risultato di richiamarli con la loro presenza là dove trovassero rifugio concorrendo, sia pure involontariamente, alle tanti stragi di pecore che quei nomadi debbono spesso affrontare. Al momento perciò in cui la tenda verrà smontata e la famiglia comincerà il suo consueto spostamento, il cane verrà abbandonato, con vero dolore della bambina che lo ha protetto. Ma, durante il viaggio, il figlio più piccino rimarrà indietro e il padre, disperato, tornerà a cercarlo. Lo troverà già preso di mira da avvoltoi voracissimi tenuti solo a bada dai latrati del cane da cui si erano separati. Così quando il padre, trionfante, raggiungerà la famiglia con il bambino in braccio, lo seguirà scodinzolando il cane, accolto adesso come un salvatore... Fra il documento e la favola non ci sono transizioni. Tutto è lì, vero, riprodotto dal vero e anche quando la finzione filtra nella cronaca, ha i suoi stessi modi, la sua stessa qualità: narrativa e stilistica. In cifre in cui il rapporto con la natura e lo scandire lento ma fermo di tutti gli atti di quella vita nomade, sospesa fra tradizioni antiche e un'attualità solo accennata, sanno sempre approdare alla poesia. Con immagini in cui i panorami splendidi sanno felicemente alternarsi in visioni di interni, proposte con realismo asciutto, dove tutto è spontaneo. Un'impresa felice, di una regista che sa «vedere». E far vedere.