Nel nuovo libro di Achille Serra il racconto di quarant'anni vissuti in prima linea
Uno sbirro in prima linea tra stragi, criminalità spietata e terrorismo strisciante che a colpi di pistola diventava ogni giorno sempre più protagonista. Un racconto che attraversa la carriera di Achille Serra, da giovane commissario dal capello impomatato, come lui stesso si descrive, e con tanta passione in corpo, fino a prefetto di grandi città. oggi a Roma, in età matura ma sempre pervaso dalla stessa voglia si essere al servizio della gente. Un libro, «Poliziotto senza pistola», edito da Bompiani e scritto con la collaborazione di Monica Peruzzi giornalista di Skynews24, che Achille Serra ha scritto «per divertimento» confida ma che aiuta a capire quegli anni che ancora nascondono tante verità e che hanno strascichi e riflessi ancora oggi. Un poliziotto senza pistola che di pistolettate ne ha vissute tante? «Milano in quegli anni era una città violenta. I tram venivano rovesciati e incendiati. In cielo si addensavano i fumi dei lacrimogeni e delle molotov. La malavita era agguerrita: rapine nei ristoranti, nei supermercati. Cavallero, Vallanzasca, Turatello Epaminonda: criminali veri che segnavano con il sangue il loro passaggio. I primi rapimenti. A Milano ce ne sono stati oltre 100. Crimini efferati che ci trovarono impreparati: solo con il tempo siamo riusciti a sconfiggere questa piaga». E lei sempre senza pistola? «Frutto degli insegnamenti di persone esperte che hanno segnato i miei primi passi in polizia. Il maresciallo Ferdinando Oscuri, un uomo generoso ,un poliziotto straordinario che aveva grandissimo rispetto anche dai malavitosi. Grandissima umiltà e mai arrogante. Una dote che ho cercato di avere sempre. Con i colleghi come con i miei interlocutori. Sia che fossero delinquenti che poi, negli anni a venire, rappresentanti del Social Forum». Un dialogo che le costò parecchie critiche. «A Firenze, eravamo dopo il G8 di Genova, l'idea di trattare con il Social Forum, veniva considerata un'oscenità. La Fallaci scriveva ogni giorno che Firenze sarebbe stata saccheggiata. Ma io sono andato avanti. Prendendomi anche gli insulti di quelli del Social Forum che non si fidavano. Alla fine il corteo c'è stato e Firenze era salva. Aveva vinto il dialogo e il buonsenso». Lei ha avuto anche un altro «maestro», Luigi Calabresi. «Noi funzionari giovani venivamo affiancati da uno esperto. Io ebbi la fortuna di essere assegnato a Calabresi». Ucciso da lì a poco. Come visse quella storia? «Luigi fu ucciso giorno dopo giorno. Sui giornali. Sui muri, dagli intellettuali. Condannato a morte anche da chi lo lasciò solo e non lo costrinse ad andar via da Milano». Cosa intende? «Era un attacco continuo. Dovunque "Calabresi boia" "Calabresi assassino". Lui non voleva mollare e non ha mollato. Ma il rischio c'era ed era alto. Bisognava obbligarlo a cambiare sede». Nel libro rivive il momento dell'assassinio... «Ero di turno e toccò a me andare sul luogo dove era avvenuta la sparatoria. Fu drammatico. Quando arrivò il questore e salimmo fino all'appartamento di Luigi per dare la notizia alla moglie non riuscii a trattenere la commozione e lasciai solo il questore ad affrontare il triste compito». Ma lei che idea si è fatta di quella storia, della morte di Pinelli? «L'inchiesta giudiziaria, condotta tra l'altro dal neo senatore D'Ambrosio, ha esperito ogni ipotesi. Eseguito ogni prova tecnica. E tra l'altro come è stato subito evidente al momento della morte di Pinelli, Luigi Calabresi non era nella stanza. Oltretutto Luigi era uomo di dialogo. Una volta mi chiese di andare con lui al consolato americano dove era in corso una manifestazione. Quando arrivammo volava di tutto. La contestazione era particolarmente violenta. Mi nascosi sotto il sedile. Luigi invece scese dall'auto e si diresse, solo con coraggio e tranquillità, verso i manifestanti e li convinse a desistere dalla violenza. Questo era Calabresi». Non sempre finiva così. Lei ricorda la morte di Annarumma, figlio del sud, celerino sprangato da un manifestante. «Quello fu il primo poliziotto