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di CHIARA MONTENERO SILVIO Orlando ce l'ha fatta.

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La sua dichiarazione "farsesca" avviene a giochi fatti. Non sarebbe potuto essere altrimenti. L'attore napoletano non è caratterialmente predisposto alla vanità presenzialista dell'artista seppur misantropo. Lui sdrammatizza il suo incontestabile talento, che lo ha ammesso per tante volte tra i "finalisti" del torneo cinematografico italiano, ma che solo una volta lo ha visto sul podio dei vincitori nel '99 quale miglior attore non protagonista in «Aprile» di Nanni Moretti. Ed è ancora grazie a Moretti che conquista l'ambita statuetta, questa volta come miglior attore protagonista de «Il caimano». Ma per Orlando la vittoria non è che una scommessa vinta per caso e non una medaglia da appuntare sul petto della competizione. Vincere il David per il «Il caimano» è il riconoscimento alla sua interpretazione migliore o piuttosto esiste un ruolo che più lo meritava nelle sue candidature passate? «Il mio mestiere è fatto di tante piccole ossessioni e questa è una di quelle. Per tanti anni ero arrivato a un passo dalla vittoria e poi, per un motivo o per l'altro, non ce l'avevo fatta. Era una piccola sfida con me stesso e mai con o per gli altri. Non a caso il premio ha coinciso con un momento importante della mia vita, con la mia maturità artistica. Un film bellissimo, difficile da definire e tanto meno da ridurre entro schemi intellettuali, ideologici o politici, come si è tentato di fare. Un film dalle mille sfaccettature che si risolvono nell'irrisolto qual è la nostra realtà e quella del nostro paese. Il mio è un personaggio complesso da interpretare. È stata una prova importante, un confronto con me stesso, ma anche con Nanni per corrispondere alle sue aspettative. Di certo ho tentato di dare il meglio di me». Cosa si prova al momento della nomination? «Cerchi di individuare dei piccoli segnali: la posizione del cameraman che dovrebbe inquadrare il vincitore per accompagnarlo sul palco, le espressioni di chi apre la busta prima di dichiarare l'eletto, i mille rituali legati alla cerimonia di consegna del cosiddetto Oscar Italiano. Un premio mediamente inutile che in realtà non serve a nulla, anzi può essere addirittura negativo per la carriera di un attore. È come il torneo di calcetto in cui alla fine esce fuori tutto il lato umano dei partecipanti e lo spirito di competizione. Nè più, nè meno». Moretti commosso ha sorpreso tutti. Erano lacrime vere? «Credo proprio di sì. Non credo che l'attore Moretti sia in grado di fingere così abilmente. E poi questo film è stato per lui un grande investimento, non solo creativo, ma anche personale in quanto ha coinciso con un momento difficile e doloroso della sua vita privata e del suo impegno artistico e politico. Non è stato un film qualsiasi. È facile fare il debuttante di talento, se si ha talento, difficile è riuscire a dire una cosettina in più per chi ha gia detto tanto. La paura di ripetersi, di grattare il fondo del barile è lecita e reale quando sei riuscito a importi e a dire qualcosa di più, specialmente alla nostra età». Nei film che costituiscono un po' la trilogia politica di Moretti: «Palombella Rossa», «Aprile» e «Il caimano» (a cui si potrebbe aggiungere «Il portaborse» di Lucchetti, con e prodotto da Moretti), lei interpreta sempre personaggi ingenui che si lasciano coinvolgere e travolgere dal carisma del leader. Nella vita privata le somigliano? «Io sono un attore e l'attore è sempre un po' orfano, gli manca sempre un pezzetto. Recitare è la possibilità di completarsi, di trovare il pezzo mancante e lo fa spesso attraverso il regista, con cui instaura un rapporto padre-figlio, vedi il meraviglioso legame che c'era tra Fellini e Mastroianni. Nel mio caso con Nanni direi piuttosto fratello maggiore-fratello minore». Peppino e Eduardo sono nel suo dna di napoletano? «Eduardo e Peppino fanno parte del mio percorso artistico, oltre ad essere figure che hanno segnato un secolo. Ma il fatto straordinario di Eduardo era il vive

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