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Alida, la fiamma della bellezza

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Io ero un ragazzetto, la vidi arrivare con Mario Camerini, amico di mio padre, in una località della Val Gardena che doveva essere la mia ultima vacanza di mezza pace. Il cinema, allora, non era tra i miei miti ma chi fosse una diva mi era facile capirlo, non foss'altro per sentito dire. E quella diva — la prima della mia vita — era lì a tavola, di fronte a me. Reggendo piacevolmente una conversazione che più d'una volta inframezzava con frasi tedesche quando si rivolgeva ai camerieri altoatesini da cui eravamo serviti. Non sapevo, allora, che quella che noi tutti conoscevamo come Alida Valli si chiamava in realtà Alida Maria von Altenburger, nativa di Pola dove l'ex Impero austroungarico aveva lasciato una precisa impronta anche linguistica. Origini aristocratiche, un'espressione e dei gesti raffinati, una grazia e una bellezza che emanavano fascino e incanto. Per anni, poi, la vidi solo al cinema, ma curiosamente, finita la guerra, dopo che si fu trasferita a Hollywood, ebbi sue notizie attraverso una telefonata che Shirley Temple mi fece qui a «Il Tempo» per sostenere, con una trovata pubblicitaria, un suo film che stava per uscire qui da noi. Una telefonata che, citazione del film a parte, finì per concentrarsi quasi unicamente su Alida Valli, l'italiana di Hollywood, che lì aveva conquistato tutti: «È la più bella, la più simpatica — mi diceva Shirley Temple dall'altro capo del filo — dà molti ricevimenti in casa sua, insieme con il marito Oscar de Mejo e parlandone sempre mi ha messo una gran voglia di venire a conoscere l'Italia...». Eppure, nonostante il successo subito ottenuto a Hollywood, quegli anni per Alida — ma lo disse molto dopo — non furono dei più felici. I rapporti con il marito, anche se dalla loro unione era nato un bel bambino biondo, Giancarlo, avrebbero finito presto per logorarsi mentre il suo carattere deciso e ricco di personalità cominciava a sentirsi imprigionato in schemi cinematografici cui stentava ad aderire, nonostante i grandi registi con cui lavorava, a cominciare da Hitchcock. Il suo produttore era David O. Selznick, abituato a far man bassa in Europa di tutte quelle che poteva trasformare nelle «sue» star. Secondo il suo solito si era ingegnato a «trasformare» Alida in vista di quello che aveva in mente, arrivando anche ai più piccoli dettagli per gli abiti, tanto — me lo raccontò lei stessa — da aver chiesto al celebre costumista Travis Branton di disegnarle, per «Il caso Paradine», ben diciassette vestiti, tutti neri, però variati solo di poco nelle linee e nel taglio. Ecco così di nuovo Alida in Italia, con la stessa fuga da Hollywood in cui più tardi l'avrebbe imitata Anna Magnani. E fummo di nuovo uno di fronte all'altra, in grado di annodare quell'amicizia che da quel momento ci ha uniti. Un ritorno, però, che non era certamente una vacanza perché lei doveva presto tornare attiva, attivissima in quasi tutto il miglior cinema europeo. Arrivava e ripartiva, mi telefonava, ci incontravamo. Al suo fianco, adesso, c'era il regista Giancarlo Zagni che sembrava riempire i molti vuoti della sua vita privata. A volte riuscivo ad avere sue notizie quasi soltanto dagli schermi, attraverso i suoi film in Inghilterra, in Francia, in Spagna. Dopo averla vista nel «Terzo uomo» di Carol Reed con Orson Welles, non potei fare a mano, al suo ritorno, di domandarle di quell'attore, ormai anche celebre regista, di cui si cominciava tanto a parlare. «Un carattere non facile — mi sentii rispondere — non sai mai come prenderlo, come reagisce a una tua frase, però si capisce che è un genio e che lo diventerà anche di più, perché i geni — concluse un po' stupendomi — non nascono tali ma si costruiscono a poco a poco, per questo è soprattutto da vecchi che danno il meglio». Lei, però, avrebbe dato il meglio di sé a soli trentatré anni, con una genialità nel campo della recitazione difficilmente dopo superata. Proprio in «Senso», nel ruolo

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