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di GIANNI SARROCCO UN MOSTRO che fa ancora paura.

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Quel cuore impazzito lo senti pulsare anche a 30 chilometri di distanza, in quanto 20 anni sono meno di uno scherzo per 200 tonnellate di uranio che sono attive e letali anche per secoli, pronte a a rispargere terrore nucleare e morte in un intero continente. La maledizione di Chernobyl è ancora lì. E nulla vuol dire che questa centrale atomica voluta nel 1977 dalla grandeur dell'ex impero sovietico sia stata disattivata sei anni fa. Il mostro, infatti, non è morto. E oggi, a due decenni esatti di distanza dal primo disastro nucleare, il mondo ricorda e s'interroga su tutte le nuove nuvole che possono minacciare l'umanità. Si commemorano circa 500 mila vittime (solo 55 mila secondo le fonti locali e 4000 secondo gli studi ufficiali dell'odierna repubblica dell'Ucraina) dimenticando che dopo ben quattro lustri in queste zone contaminate ogni anno nascono ancora 900 bambini con le carni segnate dai postumi delle radiazioni. Rimuovere, cancellare, minimizzare quanto avvenuto nella notte fra il 25 e il 26 aprile del 1986 a Chernobyl subito dopo l'esplosione del reattore numero 4, con la nube radioattiva che per settimane, ignorando la cortina di ferro, impazza in più di una repubblica sovietica fino a estendersi in due giorni sull'intera Europa. Ombra nera sul mondo, mai fugata. E che oggi si ripropone perché il nucleare è tuttora in mezzo a noi, con tante centrali atomiche che si trovano a un tiro di scoppio dalle Alpi. Il cuore pazzo di Chernobyl continua ad ardere dopo aver spazzato via tre città, tra cui Pripiat, creata per i dipendenti della centrale e allora abitata da 47 mila anime. Cancellati dalla faccia della terra pure 74 villaggi contaminati da isotopi di plutonio la cui vita media è di 48 mila anni. Immagini di morte e di distruzione che dopo 20 anni sono ancora sotto i nostri occhi. E che ci fanno capire come la bestia nucleare sia ancora viva, pronta a dare micidiali zampate. Oggi come ieri, quando a Chernobyl vedemmo che il comunismo cominciava a morire per colpa soprattutto dei suoi paradossi. Non riusciamo a dimenticare, infatti, le parole dell'accademico sovietico Anatoli Alexandrov che in quei momenti di follia collettiva rassicura i pochi giornalisti occidentali riusciti ad avvicinarsi ai limiti dell'immemso cratere proibito, con una frase che ti gela. «Le nostre centrali nucleari non sono a rischio - ti rinfaccia lo scienziato dell'Urss - Potremmo costruirle persino sulla piazza Rossa. Sono più sicure dei nostri samovar». Ma all'una di notte del 26 aprile del 1986 non è un samovar che salta in aria spargendo nell'etere 70 mila tonnellate di detriti radioattivi che viaggiano all'infinito. Il mondo trema, l'Italia trema perché i venti spingono la nube prima verso il Nord dell'attuale Ucraina (Kiev è a 120 chilometri da Chernobyl) minacciando fino alla Svezia, ma subito dopo il terrore inverte la rotta e si dirige verso di noi contaminando leggermente regioni della Romania, Ungheria e Jugoslavia. Al potere a Mosca c'è Gorbaciov impegnato con Reagan in colloqui sulla proliferazione nucleare. A Roma, IX legislatura, c'è il primo governo Craxi a due mesi dalla scadenza, Scotti e Zamberletti responsabili della Protezione civile, Andreotti agli Esteri, Scalfaro agli Interni e Spadolini alla Difesa. La Balena bianca insediata per bene al comando. L'esecutivo cerca di correre ai ripari con misure che lasciano il tempo che trovano (divieti su verdure e latte). Comincia ad ardere l'inferno di Chernobyl subito dopo l'esplosione che provoca già una cinquantina di vittime. Ad aggravare il bilancio di morte saranno le radiazioni nel corso di anni facendo strage di civili e di addetti ai lavori. Il governo sovietico tace e solo dopo tre giorni la Pravda ammette che a Chernobyl è successo qualcosa, un incidente, uno dei reattori è danneggiato, si stanno prendendo provvedimenti, una commissione governativa indaga. Per avere sprazzi di verità si è costretti a sintonizzarsi, clandestinamente e

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