Lolli: «Mi vedo come Forrest Gump»
Cinquantaseienne, professore di italiano e latino in un liceo di Bologna, Lolli ha inciso solo una quindicina di album, anche perché per un lungo periodo ha abbandonato la professione di musicista per dedicarsi esclusivamente a quella di insegnante e di scrittore («L'inseguitore Peter H.», «Giochi crudeli», «Nei sogni degli altri», «Rumore rosa»). Marcatamente poetico, non si è mai distaccato dal cliché del cantautore impegnato e molto legato alla forma-canzone, un classico degli anni '70. Più che un musicista "contro" lui dice di essere piuttosto una sorta di Forrest Gump: «Non volevo sottolineare un deficit d'intelligenza, quanto un surplus di emotività. La mia carriera è stata sempre all'insegna di una sorta di ingenuità, che non mi ha permesso di capire e sfruttare i meccanismi del mercato discografico». Nel nuovo album c'è una bellissima canzone su Marco Pantani («Le rose di Pantani»). Un personaggio che, come ha detto lei stesso, rappresenta il bisogno di questo paese di creare qualcosa per poi distruggerlo. «Credo che rappresenti bene il carattere degli italiani, che hanno un bisogno assoluto di avere un leader, di credere in qualcosa. È un bisogno che io rispetto, di storia, di leggenda, di narrazione, perché viviamo in un paese molto poco narrativo in questo momento. Però chi ci conquista diventa in qualche modo anche oggetto di invidia, che poi lentamente si trasforma in odio e che va distrutto, peraltro con una sorta di godimento». Pensa che esistano veramente queste due Italie così contrapposte? «Penso di sì, almeno in parte. Da un lato gente che ha desiderio di normalità, di uno stato laico, che pensa che pagare le tasse significhi spendere poco per il medico, l'asilo, la scuola, e chi invece considera lo stato come un oppressore. Bisognerebbe trovare una sintesi tra civismo ed individualismo». In «Bisogno orizzontale» dice: «Non ci sono più zingari sulla sponda del canale. L'attimo fuggente è fuggito con in tasca il capitale di una gioventù felice». Esistono ancora gli zingari felici? «Assolutamente no. Ogni posizione anticonformista ed originale oggi viene giudicata negativamente. Parlo anche di categorie dell'anima, di volontà di discutere, di autocritica». E questo Dio dell'oblio e della perplessità, («Nuovo carcere Paradiso") che ci ama e ci odia allo stesso tempo? «Chiamiamolo pensiero unico. Mi sembra che oggi, soprattutto fra i giovani, ci sia un modo di pensare "giusto" che non va criticato, e questo ci consegna all'oblio, alla dimenticanza del nostro spirito critico». Trent'anni fa lei è stato definito triste perché cantava il pessimismo di un'epoca. Come sono i giovani di oggi, con i quali ha contatti giornalieri? «Sono tristi, implosi. Perché alla naturale malinconia dell'adolescenza viene contrapposto l'obbligo di essere felici e belli, andare male a scuola è un punto di merito. E allora implodono, consumando molta energia interiore».