di TOMMASO SISTI MOLTA gente adesso si chiede chi gliel'abbia fatto fare.
Da lì teneva le fila dell'organizzazione, latitante anche da un'esistenza dignitosa, che valga la pena di essere vissuta. Distante anni luce dall'immagine dei Padrini di Cosa Nostra, i mammasantissima contornati di belle «fimmine», spietati ma gaudenti, quelli che facevano sgozzare i traditori continuando impassibili a sgranocchiare aragoste, pasteggiando con un bicchiere di vino d'annata. Ma era un padrino, Bernardo Provenzano? O era soltanto un boss mafioso? Aveva qualcosa in comune con don Calogero Vizzini, o con Lucky Luciano, con don Peppino Sgadari, don Antonio Milletarì, don Vito Cascio Ferro? Esce in questi giorni in libreria una nuova edizione, riveduta e aggiornata di un libro fondamentale per orientarsi nel labirinto della mafia, scoprendo la personalità degli uomini che ne hanno tessuto l'ordito: «I Padrini» (Newton Compton, 9,90 euro) scritto da Giuseppe Carlo Marino, professore di Storia contemporanea all'università di Palermo. Un accademico (informato e scrupoloso, come devono essere gli storici di professione), capace però di scrivere in modo semplice e piacevole, catturando il lettore. Nel libro, Marino cita tre volte appena Bernardo Provenzano, e di sfuggita. E questo offre una risposta implicita alla domanda. Zù Binno non era un Padrino, né un patriarca. Era soltanto il capo dei «viddani» di Corleone, quelli smascherati da Tommaso Buscetta. Ecco, rileggere la biografia di don Masino aiuta a capire la mutazione antropologica della mafia, e la mancanza di «rispetto» per uomini come Provenzano o Riina. Non fu Buscetta il traditore, furono i corleonesi a tradire. Nella «particolare visione del mondo dei mafiosi», scrive Marino, «una vita consapevolmente condotta nell'illegalità e persino nel crimine può aspirare a ritenersi comunque dotata di una sua particolare "eticità", sempre che la stessa illegalità sia paradossalmente considerata come una "legalità alternativa", ovvero come un autonomo sistema di idee, relazioni umane, bisogni, interessi ed affari, a suo modo speculare a quello della gran parte dei cittadini che si riconoscono nelle Stato e nelle sue prescrizioni. Come dire che un mondo di fuorilegge non è di per sé condannato ad essere un mondo senza legge: ha la sua "legge", le sue regole e i suoi princìpi». Perfetto mafioso e «gran signore», Buscetta vuotò il sacco con Giovanni Falcone perché si sentiva nemico dei corleonesi, che non avevano nulla a che vedere con l'«onorata società». Divorato dal cancro e prossimo alla morte, dettò il suo testamento nell'ultima intervista: «Io voglio essere ricordato come una persona per bene. Uno che quindici anni fa ha preso un impegno con lo Stato e lo ha sempre mantenuto, senza mai deviare di una virgola. Ho giurato a Giovanni Falcone che gli avrei detto tutta la verità. L'ho fatto». E aggiunse: «Pensavamo di vincere e invece abbiamo perso. Però io sono rimasto sempre uguale. Un uomo leale». Il senso del suo sfogo era questo: adesso la magia è in mano ai gangster e ai quaquaraquà, del tutto privi di senso dell'onore. E, infatti, Riina non meritò il titolo di don (se non con intenzioni sarcastiche), né lo ha mai meritato Provenzano. Sembra di ascoltare le parole di Don Vito Corleone (Marlon Brando) nel «Padrino» di Francis Ford Coppola: «Ci vivi abbastanza in famiglia?», domanda al cantante Al Martino; «Sì, certo», risponde quello; «Bravo, perché un uomo che sta troppo poco con la famiglia non sarà mai un vero uomo». E la famiglia, si sa, ha un doppio significato. Il Padrino, quello vero, era - all'origine - un mediatore, o «meglio ancora», sottolinea Giuseppe Carlo Marino, «era il titolare delle funzioni di "governo sociale" conferitegli, per un certo ben delimitato territorio, dall'intera comunità dei "signori della roba". Egli così ascendeva ad una funzione sociale che ne faceva qualcosa di simile a un aristocratico della criminalità, un