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Gli antropologi Usa non avevano dubbi «Nelle loro vene sangue africano inferiore»

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E essere non-bianchi era una sciagura, voleva dire stare ai confini dell'umanità, tra gli ultimi e i reietti. L'unica certezza era sapere ciò che non si era per gli altri. Adesso si scivola via da questo cono d'ombra, dicendo che quelli erano brutti tempi, che sono stati gli anni degli italiani che emigravano dall'altra parte del mondo, in fuga dalla povertà dello Stivale guastato dalla miseria. I brutti tempi però tornano. Li vivono altri, che partono da altre povertà per approdare in altre Americhe, come l'Italia. E chi ricorda i "nostri" tempi? «Gli italiani sono negri dalla memoria corta», diceva nel giugno 2002 il deejay africano americano Chuck Nice, dalla stazione radio Waxq-Fm di New York. Dopo la provocazione nell'etere del deejay, a distanza di tempo c'è chi si è posto la domanda: «I bianchi sono italiani?». La frase ha dato il titolo al libro (edizioni Il Saggiatore, 19.50 euro) scritto da due cercatori di memorie, studiosi italiani americani (espressione senza trattino per scientifico puntiglio degli autori) che ostinatamente hanno voluto riprendere il filo dell'esodo tricolore per ritesserne la trama, insieme con altri ricercatori, tutti di origine italiana, riesumando sforzi, sacrifici, umiliazioni, discriminazioni razziali subite dai nostri migranti, facendo riemergere l'America in bianco e nero di quel periodo. Gli autori del testo sono Jennifer Guglielmo e Salvatore Salerno: lei storica, lui sociologo. «Sal - scrive la Guglielmo - era cresciuto in una delle poche famiglie di immigrati siciliani nella East Los Angeles operaia, durante gli anni Cinquanta e Sessanta, e spesso lo prendevano per latino a causa della carnagione scura. Io invece - racconta - figlia dalla pelle chiara di famiglie operaie, irlandese e italiana, ero cresciuta poco a nord del Bronx, in un quartiere residenziale abitato prevalentemente da famiglie borghesi italiane, irlandesi ed ebree durante i decenni Settanta e Ottanta». C'erano state, insomma, ondate di italiani del Nord, quelli che illustri antropologi definivano «di stirpe ariana superiore», rispetto a quelli del Sud, i meridionali, i «Guinea», etichettati come esseri «di sangue africano inferiore». Quegli anni erano davvero cupi. La prima immagine del sogno americano era piuttosto un incubo. Niente era certo: né il colore della propria pelle, né il futuro, né arrivare all'alba del giorno dopo. Per gli italiani era sicura solo l'ingiustizia. Come inchiostra Alberto Bugio (Vivarium, Napoli 1996), ecco cosa scriveva un giudice della Carolina del sud che così decise in una sentenza del 1835: «È impossibile stabilire il criterio in base al quale si possa definire negro un individuo. Tale criterio non deve essere determinato non solo dall'apparenza ma anche dalla reputazione». «La discriminazione e il pregiudizio razziale contro italiani, italiani meridionali, latini, mediterranei e nuovi immigrati - scrive Thomas Guglielmo, tra gli autori dell'antologia - cominciarono seriamente all'inizio della migrazione di massa dall'Italia (in particolare dall'Italia meridionale) alla fine del XIX secolo e continuarono per buona parte del XX. E furono violenti, forti e persuasivi. A volte questi sentimenti e comportamenti anti-italiani arrivarono a mettere in dubbio la bianchezza degli italiani». I numeri di quell'orda di afflitti sono riportati da Donna R. Gabaccia: «Tra il 1870 e il 1970 più di 26 milioni di persone (pressapoco la popolazione dell'Italia del 1861) lasciarono le proprie case per andare a lavorare o vivere all'estero, spesso temporaneamente. Tra il 1876 e il 1914 un terzo dei quattordici milioni di emigranti italiani andò verso il Nord America (principalmente negli Stati Uniti), e un quarto verso il Sud America, prevalentemente in Argentina e Brasile. Oggi quasi sessanta milioni di persone di origine italiana vivono fuori dall'Italia... Gli italiani subirono numerose discriminazioni. Quando la recessione nell'industria del legname provocò a diminuzione dei posti

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