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Sorella pietà in guerra e in pace

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Al tramonto di quel 24 giugno 1859, uno spettacolo agghiacciante si presenta agli occhi di Napoleone III, accorso col suo esercito a dare man forte a Vittorio Emanuele II. È il peggior macello dopo Waterloo e, come quarant'anni prima, torme di sciacalli si accingono a depredare 24 mila feriti francesi e austriaci: la stessa situazione descritta da Victor Hugo ne «I miserabili». Napoleone III, allarmato per le dimensioni della carneficina, accetta subito un armistizio - con ira di Cavour - mentre Vittorio Emanuele deve registrare che il venti per cento del suo esercito è rimasto sul terreno, a San Martino. Un altro personaggio ha seguito, inorridito, il flusso e riflusso delle opposte fanterie, tra scene di inaudita ferocia: è l'uomo di affari ginevrino Jean-henry Dunant, che per la sua opera riceverà il premio Nobel per la pace. Fornire assistenza ai feriti, senza distinzione di nazionalità e di bandiera, è l'idea di Dunant, che fissa nelle pagine di «Un souvenir de Solferino» le sue sensazioni sulla cruenta giornata vissuta nella pianura lombarda. Lo slancio generoso delle popolazioni e delle autorità civili è un favorevole auspicio per ciò che si vuole realizzare: tanto è vero che, a tutto agosto del 1859, vengono ricoverati negli ospedali di Brescia 32.946 soldati francesi, italiani e austriaci. «Le gerarchie militari, in particolare, appaiono tutt'altro che entusiaste, ma la novità riesce a incuriosire, e persino a interessare, una ristretta cerchia di persone, disponibili a sottoscrivere le risoluzioni e le raccomandazioni esposte in un documento fondamentale, redatto il 29 ottobre 1863, documento che costituisce il vero prologo alla nascita della Croce Rossa». A un altro benemerito, il medico svizzero di origine italiana Luigi Appia, si deve il segno distintivo internazionale della croce rossa su fondo bianco, destinato, a norma della Convenzione di Ginevra, a garantire uno status particolare a chi opera sotto questo simbolo. Nell'Italia appena unificata, le basi di quella che in seguito sarebbe stata conosciuta come Croce Rossa vennero poste a Milano il 29 febbraio 1864 con l'approvazione della proposta del presidente dell'associazione medica, il chirurgo Cesare Castiglioni, di aderire al Comitato internazionale per il soccorso dei militari feriti in guerra, appena costituito a Ginevra. Il battesimo del fuoco avvenne in occasione della terza guerra di indipendenza (1866), con l'impiego di quattro squadriglie di ambulanze. Si snoda, dunque, nell'arco di oltre un secolo la vicenda che Mario Mariani - critico letterario e studioso di storia contemporanea - ha raccolto in volume («La Croce Rossa italiana - L'epopea di una grande istituzione», Mondadori, 434 pagine, 20 euro). Centoquarant'anni, scanditi con ritmo quasi regolare da grandi calamità naturali, tre guerre coloniali, due conflitti mondiali. Il lettore rivive l'opera di assistenza e soccorso della benemerita istituzione in occasione del terremoto in Calabria e dell'eruzione del Vesuvio (1905) e del rovinoso terremoto di Messina (1908), con le sue ottantamila vittime; in epoca a noi più prossima, in occasione dell'inondazione del Polesine, del disastro del Vajont, dell'alluvione di Firenze, del terremoto in Irpinia. Il fatto nuovo, veramente rivoluzionario (si considerino i tempi), fu la comparsa delle infermiere volontarie, non soltanto in Italia, perché operarono in migliaia in occasione del conflitto russo-giapponese, la prima guerra moderna del ventesimo secolo. Il Corpo delle infermiere volontarie italiane si presentò all'inizio della Grande Guerra (venne così chiamata, prima che l'umanità fosse costretta a numerare i conflitti mondiali) con un organico di quattromila sorelle, alcune delle quali rimasero impavidamente al capezzale dei soldati feriti anche dopo la rotta di Caporetto. Proprio sul fronte italiano, nel Corpo sanitario, prestò la sua opera Ernest Hemingway, che fece di quella esperienza lo sfondo per il romanzo «Addio alle armi». Più oneroso il prezzo

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