Azione e suspense
LA RAPINA in banca è uno dei luoghi comuni del cinema americano. Spike Lee, però con la genialità delle sue regie e le sue doti di acuto narratore (si ricordi, di recente, «La 25a ora»), pur tenendosi a quegli schemi, ne ha ribaltato quasi del tutto gli approdi: con tensioni, ambiguità e sorprese che, anche quando costeggiano l'avventura (e il thriller) vanno a fondo nelle psicologie, spaziando addirittura, per certi personaggi, nel loro passato più lontano (nero come la pece). L'inizio segue i canoni soliti. Una banca al centro di New York, all'interno una cinquantina di persone fra clienti e impiegati, all'esterno quattro uomini camuffati da imbianchini che, appena dentro, pronunciano la formula notissima «Questa è una rapina» e mettono tutti a terra, imbavagliati, incappucciati e presto, stranamente, fatti vestire come loro. Fuori comincia l'assedio della polizia con a capo un detective di colore (Denzel Washington) spalleggiato, ma qualche volta ostacolato, da un collega altrettanto deciso (Willem Dafoe). Il secondo agirebbe subito, al primo tutta quella messinscena non convince fino in fondo, neanche quando il capo mascherato dei rapinatori (Clive Owen) chiede, per liberare gli ostaggi, un furgone e un aereo pronto a decollare. E, a un certo momento, con nuovi sospetti quando interviene il presidente della banca (Christopher Plummer) spalleggiato da una donna versata in intermediazioni (Jodie Foster), cui si aggiunge, in un secondo momento, lo stesso sindaco della città che, stranamente, sembra voler mettere a tacere al più presto tutta la faccenda... La conclusione, pur chiarita in molti dettagli, Spike Lee e il suo sceneggiatore Russell Gerwirtz (un esordiente di forti qualità) lasciano allo spettatore di immaginarla compiutamente perché preferiscono prepararla disponendo, quasi con secchezza, tutti i tasselli del loro abilissimo mosaico. Sostenuto, da un punto di vista della rappresentazione, da modi di regia che, pur con lo spazio concesso ai caratteri e, via via, alle loro evoluzioni, tendono a serrare alla gola: per ritmi martellanti e furiosi, per climi tesi fino allo spasimo, con immagini (di Matthew Libatique, già a fianco di Spike Lee per «Lei mi odia») strette sui personaggi, buie, quasi spettrali, grondanti angosce ad ogni scena. Anche quando dall'azione si passerà alle rivelazioni. Un film tra i migliori di Lee. Recitato da tutti con rigore e vigore. Ma anche, sempre, con un realismo che sa sottolineare e sfumare.