Lo scrittore assolto dall'accusa di plagio Per il giudice si è solo ispirato al «Graal»

Il più famoso (e ricco) romanziere di questi ultimi anni, l'unico (si dice) che abbia venduto più copie della Bibbia, autore del più discusso e conteso (dai cineasti) libro del Terzo Millennio ha vinto in tribunale la «causa del secolo». Quella, per intenderci, che se non fosse andata così com'è andata avrebbe costretto Brown al più alto pagamento di danni della storia dell'umanità. Ma Dan, quarantunenne ex scrittore spiantato del New Hampshire, citato in tribunale, accusato di plagio, sottoposto ad un approfondito interrogatorio, alla fine ha vinto. «Il codice Da Vinci» non è tutto farina del suo sacco, ma l'autore non ha commesso plagio e per i severi giudici inglesi può continuare a godersi soldi e fama. Non solo. A tre anni dall'uscita, caso più unico che raro, il suo best seller è tornato in testa alla classifica Usa delle vendite. Che pioggia di soldi! E come sempre piove sul bagnato. Si calcola che il «Codice» abbia fatto guadagnare a Brown 350 milioni di euro. Fino ad oggi. Tutto è iniziato nel settembre del 2004, quando Michel Baigent e Richard Leigh accusarono Dan Brow di aver «copiato» il suo romanzo milionario «Il codice Da Vinci» dal loro «Il Santo Graal», un saggio del 1982... Ma forse è meglio andare un po' più indietro: tutto è iniziato circa duemila anni fa quando, narra la leggenda, il nobile Giuseppe d'Arimatea, già membro del Sinedrio e discepolo di Gesù, prese la coppa con la quale Cristo aveva celebrato l'ultima cena e con quella raccolse il sangue del Salvatore sulla croce. Ecco, da allora, su quella coppa, chiamata comunemente Santo Graal, perduta, ritrovata nel Medioevo da tre cavalieri purissimi di cuore e poi ancora perduta, si è scritto di tutto e il contrario di tutto. I suoi poteri sono mirabolanti: il Santo Graal è in grado di nutrire chiunque gli si avvicini, può curare gli infermi e perfino donare la vita eterna. La sua visione porta alla perfezione ed indica con certezza la strada verso Dio. In tanti, nei secoli, hanno cercato il Santo Graal, in tanti hanno tentato di capire cosa fosse realmente. All'inizio degli Ottanta tre autori, Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln con il libro «Il Santo Graal» avanzavano un'ipotesi: che il Graal non fosse un oggetto, ma un segreto, custodito nei millenni. In base a una serie lunga e complessa di analisi sui Vangeli e su altri scritti secondo i tre Gesù si era sposato ed aveva avuto figli. Il Santo Graal sarebbe in realtà il «Sangue Reale», la stirpe di Gesù che, protetta dai cavalieri Templari e dal misterioso Priorato di Sion (un'associazione segretissima della quale avrebbe fatto parte anche Leonardo Da Vinci) sarebbe giunta fino ai nostri giorni. Insomma, secondo i tre autori, in giro per il mondo ci sarebbero i discendenti di Gesù. Il libro «Il Santo Graal» ha fatto per anni bella mostra di sé sugli scaffali delle librerie nel reparto «fantascienza e misteri» accanto a capolavori come «Gli ufo sono tra noi» e «Sono stata rapita e violentata dagli alieni». Poi arrivò Dan Brown e il successo del suo «Codice Da Vinci» con 40 milioni di copie vendute. Baigent e Leigh denunciarono la casa editrice Random House che è la stessa che ha pubblicato tutti e due i libri: «Il Santo Graal» e il «Codice». Henry Lincoln malato, non volle entrare nella contesa. Qualcuno ha parlato di una trovata pubblicitaria, altri hanno detto senza mezzi termini che i due puntavano solo al guadagno. Il giudice ha affrontato la causa con serietà per quello che era, un processo per plagio. Senza dare ascolto ai pettegolezzi. Il procedimento, a Londra, è durato cinque settimane. Brown ha ammesso di aver letto «Il Santo Graal» e anche di essersi ispirato a questo scritto. Ma, ha spiegato, per il suo fortunatissimo romanzo si era basato anche su numerosi altri testi. Gli autori del saggio dell'82 hanno affermato che Brown aveva anche inserito nel suo libro un riferimento indiretto a loro due: il personaggio di Leigh Teabing, che ha come nome il cognome di uno dei due autori e per cognome l'anagramma