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Salman Rushdie, l'arte contro la violenza

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Di quella condotta dai maquisard francesi durante la seconda guerra mondiale, degli scontri tra India e Pakistan, del genocidio in Kashmir e anche della guerra in corso contro il terrorismo. Salman Rushdie, conosciuto soprattutto per la pubblicazione dei "Versetti satanici" che gli valse milioni di copie e fama mondiale ma anche la condanna a morte da parte dell'allora Ayatollah Khomeini per apostasia, è venuto a Roma nei giorni scorsi per presentare il suo ultimo libro "Shalimar il clown". Una storia al fulmicotone che mescola sentimenti forti come amore e vendetta con paesaggi a noi lontani e geopolitica. Un libro che ha impegnato Salman Rushdie per quattro anni, ma i cui personaggi e il viluppo dei loro destini albergava da tanto tempo nella sua mente. L'ho incontrato. Di persona Rushdie è un incrocio di flemma anglosassone e imperscrutabilità asiatica. Solo gli occhi vivacissimi ne lasciano intuire la personalità vulcanica che si riflette nel suo stile di scrittura fiorito e pirotecnico. Rushdie è lontanissimo dal cliché dello scrittore impegnato e dell'intellettuale martire, così come rifugge dall' accettazione del best-sellerista. Detesta le catalogazioni. Si definisce semplicemente un uomo libero. Anche nei momenti più difficili della sua esistenza, quando era inseguito dagli esaltati integralisti (da qualche tempo è stato liberato dalla fatwa, questa specie di taglia islamica), Rushdie preferì dissolversi nell'anonimato di New York piuttosto che apparire blindato e scortato a Parigi e Londra, sue città d'elezione. Con garbata rassegnazione si sottopone alla routine dell'intervista. Immagino che quando era scolaretto avesse lo stesso sguardo compìto davanti ai suoi insegnanti. Frequentava a Bombay una di quelle istituzioni per la agiata borghesia indiana, che gli ha lasciato un'indelebile impronta inglese. «Mio nonno aveva accumulato una fortuna e mio padre trascorse l'intera vita a dissiparla». Unico maschio di cinque figli si descrive come un bambino riservato obbediente e mite: piuttosto lasciava che fosse una delle sue sorelle a sistemare - magari venendo anche alle mani - un dissidio con un compagno. Questa naturale indole si è trasformata in una scelta ideale per la non violenza. «Nessuna guerra è giusta. Mai». Un'ossessione che si respira anche nel suo ultimo libro dove una scuola privata di vendetta diventa una metafora della tragedia collettiva scatenato dal fanatismo religioso. Quella che, nel libro, colloca in quel paradiso perduto rappresentato dai magici paesaggi del Kashmir. Ma che vale per qualsiasi latitudine. «È la vita ad insegnarci chi siamo: la letteratura non ha ruoli fondamentali né lo scrittore delle responsabilità capitali. Un libro può solo aprirci dei mondi che non sono nostri ed invitarci a scoprirli, amarli. Io conosco la Russia unicamente attraverso Dostoevsky, Tolstoi, Gogol». Autore da grandi tirature, Salman Rushdie non è uno scrittore particolarmente prolifico. «Rispetto ad altri miei colleghi che pubblicano un libro all'anno, io ne scrivo pochi». Non riesce a pensare alla scrittura come un lavoro impiegatizio. «Come Philip Roth, che ogni giorno si piazza in giardino sotto il suo ombrellone e scrive per l'intera giornata. A me piace fare altro nella vita». Sull'amore, pilastro della trama di "Shalimar il clown", l'autore rimane evasivo. Quattro matrimoni, l'ultimo con Padma Lakshmi, conosciuta dal pubblico televisivo italiano che ne ha apprezzato la bellezza di qualche passata edizione di "Domenica in", sono le laconiche informazioni che si raccolgono sull'argomento. Forse la risposta si trova in un passaggio del suo ultimo romanzo, dove scrive a proposito della infatuazione tra i due protagonisti: «Quando Boonyi e Shalimar il clown si innamorarono, non ebbero bisogno di leggere libri per scoprire cosa fosse l'amore». Evidentemente sull'amore non c'è niente da sapere.

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